III DEL TEMPO ORDINARIO - Mt 4, 12-23
(Is 8, 23-9,3; Mt 4, 12-23)
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del regno e guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo. Queste semplici parole, dicono poche cose, l’essenziale, quanto basta anche per noi che le riascoltiamo a distanza di venti secoli! Che cosa fa quell’agnello indicato da Giovanni – come abbiamo ascoltato domenica scorsa – per prendere su di sé il peccato del mondo? In che modo trae fuori dalle tenebre il suo popolo e tutti noi? Gesù annuncia il vangelo del regno e si prende cura delle infermità nel popolo.
In fondo è ciò di cui davvero ciascuno di noi ha più bisogno: di una buona parola, di una buona notizia e di qualcuno che sappia prendersi cura delle sofferenze che sopportiamo, che sappia condividerle con noi, che sappia essere solidale.
Ecco questo Gesù comincia a fare quando dopo il battesimo entra sulla scena pubblica di Israele, nel momento in cui viene a sapere che il Battista è in galera. Quando viene a sapere questa cosa allora Gesù decide di traslocare: lasciò Nazaret e andò ad abitare a Cafarnao, perché? Forse per la paura di subire la stessa sorte del Battista?
Può essere, non è da escludere. A me pare che questo fatto ponga Gesù dinnanzi alla necessità di lasciare la casa, la famiglia, la terra, il proprio lavoro, non per andare a stare meglio, ma perché, come dice Matteo citando Isaia, avverte l’urgenza di riprendere la missione di Giovanni esattamente dal punto in cui l’ha lasciata lui, dall’annuncio della conversione. Un annuncio che se per il Battista risuonava nel deserto, per Gesù invece risuona in un’area popolosa, nella zona di Tiberiade, abitata da ebrei, ma anche da stranieri di origine greca e da rimpatriati della deportazione assira del 721 a. C.
Cosa annuncia Gesù? annuncia la conversione, la thesuva’, il ritorno a Dio perché il regno di Dio è vicino. Non fermiamoci subito all’imperativo della conversione, questo imperativo assume la sua giusta importanza perché il regno di Dio è vicino, vale a dire che è l’Eterno a farsi vicino, a farsi prossimo, a piegarsi sulle nostre ferite, sulle nostre piaghe, sulle nostre malattie e infermità.
Tutte quelle situazioni che normalmente un sistema religioso considera come il segno della distanza di Dio dall’umano, perché la malattia, la sofferenza e la nostra stessa fragilità che sperimentiamo, ci inducono spesso a pensare: ma cosa ho fatto di male? perché proprio a me? perché il Signore mi ha castigato così?
Ebbene Gesù con la sua parola e il suo agire continua a dire: guarda che Dio è vicino proprio a te! Infatti tutta la sua vita consisterà nel percorrere le strade della Galilea annunciando il vangelo del regno e guarendo ogni sorta di malattie e infermità. La novità è anche nell’iniziativa di Gesù che va verso la gente e non viceversa. La sua sollecitudine viene ancor prima della nostra conversione!
Anzi potremmo dire che la conversione, intesa quale teshuva’, come ci insegna la lingua ebraica, ovvero come ritorno a Dio e non semplicemente come sforzo della volontà di perfezionamento, è la necessità di tornare a lui dopo che ce ne siamo allontanati, dopo che magari abbiamo anche sperimentato la delusione o siamo stati indifferenti, freddi, superficiali.
Vale la pena tornare al Signore, perché lui si è chinato su di noi. E’ questo annuncio che costituisce il vangelo del regno, è questa la buona parola che ci fa sentire la cura da parte di Dio delle ferite dell’uomo; ed è quanto di più abbiamo bisogno oggi.
Isaia parlava della terra di Zabulon e di Neftali, appunto della Galilea abitata da diverse popolazioni eretiche o comunque distanti dall’Eterno … ed è proprio da lì che comincia Gesù. Quante Zabulon e Neftali conosciamo noi? La nostra stessa città potrebbe essere chiamata così e a ben guardare in ogni nostra casa, in ogni nostra famiglia ci sono terre di Zabulon e di Neftali, cioè terre lontane dal bene, dal Signore; il nostro stesso Paese è come quel popolo che camminava nelle tenebre cercando una luce che gli permetta di uscire dal fango e dall’ipocrisia in cui sembra crogiolarsi.
Questa parola che ci descrive i gesti e le parole di Gesù, ci deve far pensare se questi gesti e queste parole del Signore siano oggi i gesti e le parole anche della sua chiesa, dei suoi discepoli, cioè se siamo una chiesa capace di non scendere a patti con le tenebre, con il fango, con l’indecoroso spettacolo del nostro Paese di questi tempi e ci renda capaci di indignarci per quello che accade!
Diceva Mazzolari che la testa del Battista dava più fastidio e paradossalmente gridava molto più forte nel momento in cui è stata staccata dal collo del profeta … come a dire che ce ne vorrebbero di discepoli di Gesù capaci di indignarsi.
Perché la Chiesa non può e non deve dimenticare di essere a servizio del vangelo del regno. La Chiesa è per il regno e se dobbiamo continuare ad essere quel corpo di Cristo indiviso di cui parlava Paolo nella lettera ai Corinzi, dobbiamo tornare alla semplice radicalità del vangelo.
Questo è anche il senso della nostra preghiera durante la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: cosa chiediamo al Signore? Chiediamo che tutte le chiese che si ispirano al Vangelo di Gesù sappiano rimettere al centro non se stesse, ma il vangelo del regno, la buona notizia che Dio si fa vicino a ogni uomo, a ogni ferita, a ogni dolore, a ogni insuccesso.
Non si tratta di fare dell’archeologismo, di immaginare di tornare a quell’unità e a quell’armonia che sembra fossero delle comunità primitive … ma di rimettere al centro di tutto l’impegno cristiano il servizio al Vangelo, di avere il coraggio di non rinchiuderci nelle nostre strutture, di non accontentarci nemmeno di cambiamenti marginali, di inventarci slogan luccicanti che durano il tempo di una moda … mentre gran parte della nostra gente rimane estranea all’annuncio del vangelo. Oggi “Sembra che la Chiesa parli a se stessa. E riesce a far notizia quando vengono alla luce piccole lotte di potere fra uomini di Chiesa o gli scandali, ieri del prete che si sposava, oggi dei preti pedofili” (G. Casale).
Anzi sembra che noi preferiamo una Chiesa ossequiata, rispettata, difesa, privilegiata e non ci accorgiamo che questo significa il nostro arrenderci alla logica del mondo, del successo, del potere, del consenso interessato e perdiamo la capacità di indignarci.
Non mi stupisco allora e spero di non scandalizzarvi se vi dico che mi capita talvolta di incontrare giovani preti che amano rispolverare antichi paramenti, orpelli e fronzoli e appena possono celebrare in latino e con le spalle ai fedeli, credono di rendere un culto più dignitoso al Signore.
Una chiesa così torna ad essere a servizio dei moderni imperatori. Se Gesù ha inventato un paramento liturgico, come diceva don Tonino Bello, questo è stato il grembiule del Giovedì santo, quando si è chinato a lavare i piedi ai suoi amici tra i quali uno lo stava per tradire e l’altro di lì a poco lo avrebbe rinnegato, eppure lui, dopo tutta una vita spesa al servizio del vangelo del regno di Dio, è rimasto coerente fino in fondo e ha portato su di sé anche il dolore del tradimento.
Chiediamo al Signore il dono di essere fedeli al Vangelo del regno.