DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE (29 agosto) - Mc 12, 13-17
In linea teorica non possiamo che essere d’accordo con l’affermazione di Gesù quando risponde ai suoi contestatori con parole che sono diventate oramai proverbiali: Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare e quello che è di Dio a Dio. Oserei dire che il contenuto lo riteniamo un dato acquisito, come Cavour auspicava: Libera chiesa in libero Stato. Forse non osava pensare che in nemmeno un centinaio d’anni la Costituzione della repubblica all’articolo 7 sarebbe arrivata a scrivere: Lo Stato e La Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
Ci sono voluti duemila anni per comprendere le parole di Gesù e per farle diventare un punto fondamentale della nostra convivenza civile e democratica. Siamo tutti d’accordo sulla separazione Chiesa e Stato, siamo d’accordo sulle rispettive aree di competenza. Anche perché abbiamo bene in mente quali siano state le conseguenze del potere temporale della Chiesa, le sue connivenze con denari, corruzione, interessi… che poterono ben più dell’ateismo e dell’agnosticismo.
Come è anche vero d’altronde, e succede ancora oggi in alcuni Paesi, quando uno Stato diventa totalitario e si fa potere assoluto, i danni che arreca alle persone e alla comunità, nel limitare o addirittura negare dei diritti e delle libertà, nell’omologazione delle coscienze.
Ma è anche vero che l’ispirazione evangelica non esaurisce la sua forza ed energia nel momento in cui sancisce la separazione dei due poteri così come viene inserita in un testo per quanto nobile come la Costituzione, anzi ci sollecita e ci provoca a viverla nelle situazioni attuali, nei problemi e nelle sfide che la storia ci pone innanzi e di fronte ai quali non possiamo far finta di nulla.
Ancora oggi la domanda degli erodiani e dei farisei, di due partiti opposti, semplificando le cose potremmo dire uno di destra e l’altro di sinistra, e che sono inviati – notate – dai sacerdoti, dagli scribi e dai capi clan, dagli anziani che stanno dietro le quinte come i grandi registi del controllo della situazione, ebbene quella stessa domanda potrebbe essere riformulata così: è lecito o no accogliere gli stranieri?
È giusto gioire del fatto che vengono rispediti indietro? Le partenze dalla Libia sono diminuite, è il ritornello di questi giorni di ferie. Non c’è dubbio, e questo sembra rassicurare le nostre ansie e paure, ma quello che non viene detto è che le persone non sono scomparse. Semplicemente non le vediamo più.
Per adesso non vediamo più nulla di ciò che accade in mare, entro le 100 miglia dalle coste libiche. E soprattutto non vediamo ciò che accade a terra, in Libia, nelle carceri dove stiamo costringendo a tornare uomini, donne e bambini, riportati indietro nell’inferno corrotto e violento dal quale speravano di essere sfuggiti. Anche se a bordo di un gommone scassato che, probabilmente non sarebbe andato tanto lontano.
Avevano scelto una morte probabile per sfuggire ad una morte certa. Noi abbiamo scelto di riportarli indietro.
Ebbene alla domanda c’è la risposta di Cristo, che – come spesso fa – è un’ulteriore interrogativo che sospinge la riflessione a farsi più vera: Qual è l’immagine che portano sui loro volti, nei loro cuori, con i loro stracci?
Come cristiani non possiamo che rispondere che quella che vediamo su di loro è l’immagine di Dio, l’immagine di uomo e di donna che vanno rispettati. E allora il principio sacrosanto di separazione non può rimanere neutrale di fronte a uno Stato che spazza via con idranti donne e bambini accolti come rifugiati e richiedenti asilo. Chiediamo rispetto per la dignità umana, chiediamo alla politica che sia tale, che sia ricerca di soluzioni, che sia mediazione, che Cesare sia capace di fare il suo mestiere.
Ma è possibile che non si capisca che chi è coinvolto, chi partecipa, chi è formato ama la sua città, il suo paese, lo tutela, lo promuove… mentre chi è lasciato ai margini non si interessa, anzi è sospinto in quelle aree grigie che sono il brodo dove si alimenta la microcriminalità, la devianza, la violenza?
È compito dello Stato andare a vedere cosa si fa in tal senso nei vari centri di accoglienza, nelle strutture in cui sono rinchiusi i migranti in attesa… lì dovrebbe lo Stato andare a verificare se si fanno i corsi di lingua, di conoscenza del Paese, di introduzione alla Costituzione, se vengono spiegati i diritti e i doveri di un cittadino, anziché far salire guardie armate sulle navi dei soccorsi e gettare discredito su tutti coloro che si impegnano nell’emergenza.
Avete sentito cosa accade a Pistoia: gli erodiani del caso vogliono andare alla Messa di don Massimo, reo di aver portato un gruppo di ragazzi africani in piscina, non per pregare, ma con l’arroganza di difendere politicamente non si sa quale proclamata «dottrina». E dire che una volta i fascisti ci picchiavano e basta. Ora vogliono pure insegnarci la vera dottrina cattolica. Segno dei tempi.
Non possiamo rimanere in silenzio. Sarebbe vile nei confronti di altri esseri umani come noi e diverremmo complici di una deriva politica che esige invece un sussulto della società civile per creare una mentalità che non sia schiava del percepito e lavorare per un futuro di convivenza. L’esperienza della storia ci insegna che le civiltà nascono proprio dall’incontro di diversi popoli nel momento in cui si sono aperti e non quando si sono chiusi.
La prima lettura ci racconta un caso emblematico, quando il signor Antioco Epifane, circa centosessant’anni prima di Gesù, come si dice ai vv. 41-42, prescrisse che tutti formassero un solo popolo e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Il re decide a tavolino di formare un popolo unito, ma unito secondo la sua ideologia, quella che vorrebbe abolire le diversità, considerate pericolose per il suo potere assolutista.
Ed è un errore, che continua ancora oggi, pensare che la pace derivi dall’uniformità e non dal continuo processo di dialogo, di riconciliazione… così come in una famiglia l’armonia e la concordia non vengono dal fatto che si è tutti dello stesso sangue, ma perché ogni giorno ognuno fa la propria parte nel costruire e armonizzare le diversità.
Come diceva il cardinale C. M. Martini di cui giovedì ricordiamo il 5° anniversario di morte: «Abbiamo tutti un immenso bisogno di imparare a vivere insieme come diversi, rispettandoci, non distruggendoci a vicenda, non ghettizzandoci, non disprezzandoci e neanche soltanto tollerandoci, perché sarebbe troppo poco la tolleranza. Ma nemmeno – direi – tentando subito la conversione, perché questa parola in certe situazioni e popoli suscita nodi invalicabili. Piuttosto “fermentandoci” a vicenda in maniera che ciascuno sia portato a raggiungere più profondamente la propria autenticità, la propria verità di fronte al mistero di Dio».
Allora, o si cerca il dialogo e il confronto oppure ci si chiude e ci si difende lasciando vincere la paura che arriva a giustificare provvedimenti violenti, sospensione dei diritti, prevaricazioni, che apparentemente sembrano portare sicurezza, ma in realtà rendono la convivenza più incerta e violenta.
La nostra risposta non sarà quella che diedero alcuni Giudei di fronte alla politica di Antioco, come si legge al v.29: Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel deserto… Non scappiamo nel deserto, non releghiamo la possibilità di vivere il Vangelo in alcune isole felici, perché la chiusura, l’isolamento, la paura sono mortiferi e non fecondano il futuro.
Oggi c’è bisogno di noi, o meglio c’è bisogno di vangelo, c’è bisogno che la parola di Gesù pervada la vita, la realtà, le relazioni… e questo vale per noi che vogliamo essere cittadini responsabili e non possiamo fuggire nel deserto per cercare di salvaguardare la purezza incontaminata della fede.
Un esempio storico, diverso sicuramente per tanti aspetti alla nostra condizione, rimanda al IV secolo, nel momento in cui il cristianesimo divenne per così dire religione di stato. Questo evento portò indubbiamente dei benefici perché ad esempio terminarono le persecuzioni, ma al tempo stesso causò un abbassamento di intensità spirituale della vita cristiana, perché ormai si diventava cristiani in massa, intere città passavano dal paganesimo al cristianesimo senza il duro e impegnativo tirocinio di anni che un catecumeno doveva percorrere… allora qualcuno intese andare nel deserto per preservare lo slancio evangelico, chiamandosi fuori o meglio a lato, per poter vivere quello che il contesto storico non favoriva.
Ora noi non viviamo sotto una persecuzione cruenta, come purtroppo accade in alcuni paesi del mondo, ma se vogliamo vivere il vangelo, se vogliamo essere donne e uomini secondo Cristo, non possiamo rinunciare ad essere sale e lievito della massa, e perciò abitare questo tempo, il nostro secolo, come diceva Rahner, fedeli alla terra e al cielo, capaci di tenere viva in questa società confusa e spaventata, l’immagine di Dio scritta in ogni persona.
Nel tempo abbiamo avuto bisogno, dopo tanta confusione e commistione di poteri, di separare, di delimitare le aree di competenza tra trono e altare, ed è sempre necessario tenerli distinti, ma forse quello che ci sta innanzi è il tempo in cui dobbiamo cercare di essere fedeli alla terra e al cielo.
È questa, per dirla con le parole di Paolo, la vera battaglia che dobbiamo combattere. È facile essere forti con i deboli, ma questa è prepotenza, è violenza che conduce alla discordia. La violenza che ci è consentita è quella che ci fa lottare contro la dittatura dell’io, soprattutto quando si tratta di stare dalla parte dei più deboli, dei più poveri, di chi non ha diritti, perché quella è l’immagine di Dio che ci è consentito di venerare.
(1Mc 1,10-.41-42;2,29-38; Ef 6, 10-18; Mc 12, 13-17)