PASQUA - nel giorno - Gv 20, 11-18


audio 4 aprile 2021

La tradizione biblica, liturgica e spirituale delle chiese e ancor prima del popolo ebraico ci consegna la festa di Pasqua come celebrazione di un passaggio.

In questa categoria del “passaggio” che si intende naturalmente come passaggio da una condizione peggiore a una migliore, abbiamo rivissuto l’epopea dell’esodo: il passaggio dell’angelo di Dio davanti alle case segnate col sangue dell’agnello, il passaggio del mar Rosso per uscire dalla terra di schiavitù e andare verso la libertà…

Fino a giungere al passaggio che anche Maria di Magdala deve fare dal suo sentimento di dolore e di rimpianto, curva com’è all’imboccatura del sepolcro sul quale si affaccia a cercare il corpo di Gesù, per voltarsi e, lasciandosi il sepolcro alle spalle, fare un’esperienza nuova del suo amore per lui.

Maria di Magdala sperimenta la beatitudine che dice che sono beati coloro che piangono perché fanno esperienza più profonda di Dio.

Ma c’è la domanda del cinico che attraversa la festa di Pasqua e che fa dire: Va benissimo, siamo contenti di essere usciti dall’Egitto, dalla terra di schiavitù, ma dovevamo proprio entrarci?

E così noi, resi cinici e stanchi, davanti a Maria di Magdala che piange le domandiamo: ma dovevi proprio amare così Gesù, non potevi tenere le distanze e non investire tutto su di lui?

Tanto sai che la vita è una ruota che gira, come talvolta si sente dire: Resisti nell’ora della croce perché poi c’è la risurrezione.

A ben guardare diciamo una cosa che non è poi tanto distante dal modo di pensare comune e pagano secondo il quale dolore e gioia si alternano nelle vicende umane. E’ questo che intendiamo quando diciamo: è la ruota che gira?

Qual è la novità del Cristo, se la ruota gira anche per noi?

Una cara amica mi ha fatto conoscere una pagina di Grazia Deledda, scritta nel 1912, dove parla di una vicenda alquanto tenebrosa in cui un vecchio pastore dice: «La vera risurrezione non è dopo la morte ma in questa vita stessa ed è il bene dopo il male, l’amore dopo l’odio».

Ciò che è avvenuto in Cristo, la sua croce, la sua risurrezione ci dicono la possibilità di attraversare il dolore non nella posizione del superamento, ma nella coesistenza con la vita.

La vulnerabilità, l’umanità e la nostra fragilità non sono il difetto della vita, ma ne sono la condizione costitutiva. Come la morte di Gesù: una morte vitale. Gesù non muore per risuscitare. Vivere adesso è risuscitare.

Un ossimoro, proprio come la natura del Cristo: umana e divina al tempo stesso.

La scansione temporale del triduo pasquale che ci fa celebrare il giovedì santo l’ultima cena, il venerdì la morte in croce e poi la veglia pasquale per annunciare la risurrezione di Gesù, ripercorre la cronologia degli ultimi giorni della sua vita, ma dopo la Pasqua i vangeli ci insegnano, Giovanni in particolare, a contemplare il mistero nella sua dinamicità e nel suo insieme. Gesù non muore per poi risuscitare, ma nella vita e nella morte Gesù è vivente.

C’è un dinamismo che possiamo comprendere per analogia con quanto accade al fiore di campo. Il fiore del campo non può sapere cosa sarà, finché non avrà raggiunto la sua completezza. Il seme non sa a cosa sarà chiamato, lo scopre fidandosi della luce che lo chiama ad ascendere e mentre è fedele alle sue radici dalle quali trae alimento. Ma nel seme che si consegna alla zolla è iscritto il fiore che diventerà, nutrendosi con la terra e accogliendo la luce che lo chiama. Come la voce di Gesù che si rivolge a Maria e chiamandola per nome la fa fiorire a una nuova relazione con lui.

Maria di Magdala vede delle cose, ma al tempo stesso deve imparare a vedere altro. Deve superare quelle strane pretese che abbiamo anche noi: arrivare a Dio di colpo, attraverso strade magiche, così che pensiamo che basti correre dove si dice che una Madonna appare e là corriamo a vedere Dio.

Maria di Magdala vide le bende e cominciò a domandarsi: che cos’è? Cosa c’è dietro? Occorre imparare a vedere la profondità divina di ogni cosa, di ogni vita.

Anche lei è chiamata da Gesù a compiere quel cammino ascensionale, di passaggio in passaggio, di livello in livello. Come diceva Teilhard de Chardin: la nostra vita è una pasqua continua, un cammino ascensionale in alto e in avanti per poter risorgere in una spirituale presenza, più profonda, più autentica, più interiorizzata nel cuore dei discepoli.

C’è ancora chi predica la morte di Cristo in croce come il sacrificio espiatorio, come il prezzo pagato ad un Dio affinché venga placato nella sua ira per i nostri peccati.

Il nostro orizzonte è l’amore, perché se Gesù è morto sulla croce è morto per amore, per essere fedele a quanto aveva fatto lungo la sua vita, per fedeltà a quanto aveva annunciato senza cedere di un passo. Sulla croce Gesù è giunto ad amare come Dio solo sa amare.

Dio non dice Ti amo perché sei buono, troppo facile, non è di Dio questo, lo possono fare tutti, troppo facile. Dio dice: Ti amo tanto non perché sei buono, ma ti amo perché anche tu possa arrivare a imparare ad amare fino al dono di te stesso[1].

C’è dunque un passaggio nella relazione con Cristo risorto che ci fa ascendere a una dimensione spirituale e più profonda nel nostro rapporto con lui.

Ma c’è anche un passaggio che Cristo risorto ci fa compiere anche nelle nostre relazioni tra di noi. Quando venerdì abbiamo sentito dire dall’alto della croce Gesù che affidava Giovanni a Maria (ecco tua madre) e Maria a Giovanni (ecco tuo figlio), possiamo intendere quel gesto come una premura umanissima per la madre che poteva così ritrovare nel discepolo amato, un figlio da amare.

Ma possiamo anche intendere che quel giorno Giovanni ha ricevuto in dono di diventare figlio di Maria e di conseguenza è reso fratello da Gesù. Non solo amico, discepolo, apostolo, ma fratello.

Quel discepolo amato, senza nome, siamo tutti noi resi fratelli da Gesù. Dalla croce e dalla risurrezione riceviamo il dono della fraternità. Quando Cristo dice a Maria di Magdala: Va’ dai miei fratelli! È la prima volta che Gesù chiama così i suoi discepoli.

Non mi trattenere, non attardarti a questa dimensione tangibile, ascendi, sali alla dimensione spirituale e va’ dai miei fratelli!

Così che la conferma dunque della vita spirituale, della vita risorta non è vedere Dio, non è vedere quello che la nostra mente vorrebbe conoscere, ma è riconoscere l’altro come fratello, perché amato da Gesù e reso da lui fratello.

Va’ dai miei fratelli: i fratelli sono già lì, riconosci gli altri come fratelli perché in ciascuno di loro è dato il dono di Dio, ciascuno di loro è quel seme destinato a fiorire.

Caifa, Pilato, Giuda, Barabba… e potremmo continuare con tutti i nomi dell’odio che segnano la nostra terra e che continuano a uccidere, a umiliare la vita fino a rendere schiavi gli altri per il potere, per il denaro, per arricchirsi… quanti Caino continuano a sfruttare, a violare, a uccidere Abele.

Eppure il fratello sarà presente nel loro intimo come non mai per il resto dei loro anni e quella fraternità rimarrà come pungolo che li accompagna perché possano conoscere il giorno in cui arriveranno a riconoscerla come spirito cui ascendere ogni giorno della vita.

Facciamo anche noi dunque la nostra Pasqua, lasciamoci condurre da Gesù in una relazione sempre più intima, interiorizzata e spirituale con lui. Ne è un segno simbolico il tempo di cinquanta giorni fino a Pentecoste che ci fa ascendere anche nella comunione di un popolo di fratelli.

La vita eterna non è un semplice prolungamento di questa vita perché se qui siamo mediocri e squallidi, capite che una vita eterna così, sarebbe un inferno… la risurrezione è una proposta di vita per ognuno di noi, perché ascendiamo, perché impariamo a fare cose che meritano di non morire.

(Gv 20,11-18)

[1] Cf Michele Do, Di cominciamento in cominciamento