I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Lc 24, 44-49a


Di questo voi siete testimoni. Di “questo” possiamo intenderlo nel senso di tutto il Vangelo che precede o più semplicemente delle tre cose di cui parla appena prima, ovvero della morte e risurrezione di Gesù, della conversione e del perdono dei peccati che riguarda tutti i popoli.

Comunque testimoni anzitutto di lui, di una persona, di una figura storica, incontrata, conosciuta e amata. Più sinteticamente ancora, ed è il nucleo, il cuore della fede: testimoni di Gesù morto e risorto. Non di un’idea, non di un’illusione, di una proiezione, nemmeno di un desiderio, ma di Cristo morto e risorto. Ed è intorno a questo nucleo che gli evangelisti hanno costruito e ripercorso come a ritroso la vita di Gesù, le sue parole, i suoi gesti, intorno al nucleo della fede, al kerygma, all’annuncio essenziale.

Il fatto che Gesù sia morto e risorto dice cosa fa Dio per noi, ovvero che è capace di un amore così grande, di un amore gratuito, sorprendente e irresistibile perché suscita il desiderio di tornare a Lui. Conversione intesa dunque non solo come uno sforzo etico, ma anzitutto come ritorno a Dio. Un ritorno perché sulla figura di Dio non solo nei secoli, ma noi stessi lungo la nostra vita abbiamo costruito innumerevoli incrostazioni e contraddizioni che ne hanno deformato il vero volto. Ci voleva Gesù che con la sua vita, la sua passione, morte e risurrezione, ci svelasse il volto di Dio.

Un volto che è misericordia, perdono, fedeltà. Anzitutto non siamo mandati ad essere testimoni di una morale, di un insieme di principi etici, non che questo non sia importante, ma c’è una cosa ancora più importante che è quella dell’essere perdonati. Che il perdono dei peccati sia tra i primi tratti dell’amore di Dio è difficile da accettare. Tante volte mi sento dire: ma il Signore mi perdonerà? Domanda legittima siccome noi non siamo capaci di farlo, di conseguenza dubitiamo che anche Dio lo possa fare.

Ecco di questo messaggio abbiamo un testimone per così dire antico e poi però vorrei ricordarne due moderni. Il testimone antico è il destinatario del discorso di Pietro nella prima lettura, in questi versetti non viene mai nominato ma si tratta di Cornelio, un centurione della Coorte Italica, che vive a Cesarea Marittima dove era installato il quartier generale dei romani e da dove Cornelio manda a chiamare Pietro.

Di fronte alla richiesta di Cornelio di diventare cristiano, Pietro era combattuto perché se avesse seguito le regole nelle quali era cresciuto, avrebbe dovuto sottoporre il povero romano e pagano a una  pletora di precetti e di osservanze. Invece Pietro compie tutto un lavoro su di sé nel domandarsi: ma cos’è questa cosa davanti a Gesù? Cosa avrebbe fatto lui?

Infatti esordisce così nella pagina di oggi: Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone (v.34). Vale a dire riconosce il suo travaglio interiore che sta cambiando il modo di pensare nel quale era cresciuto e nel quale aveva vissuto finora. Prima credeva fermamente nelle radici religiose del suo popolo, credeva di avere Dio dalla sua parte, di essere nato nel popolo giusto, il migliore. Però la frequentazione di Gesù lo ha cambiato. Certi gesti e certe parole del Signore gli sono entrati dentro poco alla volta e infatti quando ormai Gesù è già risorto e asceso al cielo, Pietro sperimenta che il Vangelo si muove dentro di lui come un lievito che va modificando il suo modo di pensare, di credere, di ragionare.

Cambiare idea a 50-60 anni o giù di lì, non è facile per nessuno. Uno si è fatto a fatica un bagaglio di convinzioni, di certezze, fondate sulla base di esperienze e di riflessioni… ed ecco che l’incontro con Cristo rimette tutto in discussione!

Ma di che cosa si rende conto Pietro? L’incontro con Gesù gli ha fatto capire una cosa apparentemente semplice: Dio non fa preferenza di persone (v.34); Dio accoglie chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga (v.35); è il Signore di tutti (v.36).

E così Cornelio è dono di Dio per Pietro. Pietro doveva convertire Cornelio, in realtà Cornelio è l’occasione per Pietro di convertirsi, di cambiare modo di pensare l’agire di Dio con le conseguenze che questo comporta e di fare l’esperienza di essere rigenerato.

Ecco cos’è la testimonianza: non è solo l’azione unilaterale che io faccio nei confronti di qualcuno… ma ancor prima è chiedermi: Cos’è questo davanti al Cristo? Questa persona, questo non credente, questo musulmano… è un dono dello Spirito santo che mi svela il volto di Dio, mi cambia, mi rigenera, mi rinnova, sempre.

Pietro arriva perfino a sovvertire l’ordine dei sacramenti: Cornelio e la sua famiglia hanno già ricevuto il dono dello Spirito Santo e poi vengono battezzati! Lo spirito di Dio, è uno Spirito sovversivo. Nessuno oggi oserebbe fare la cresima prima del battesimo! Pietro ha fatto anche questo.

Cornelio è dunque testimone inconsapevole di cosa può fare Dio anche con chi è lontano, è fuori dai nostri parametri, dai nostri recinti e dalle nostre gabbie mentali. Pietro è testimone non di valori generici, astratti e disincarnati, ma di Gesù: lo si coglie dalle sue parole emozionanti dove racconta di una fede e di un’amicizia che gli hanno davvero cambiato la vita.

Se la testimonianza di Pietro e di Cornelio appartiene al contesto in cui il cristianesimo si incontra col mondo pagano, vorrei ricordare la testimonianza di due nostri contemporanei che hanno vissuto la loro testimonianza in due contesti diversi, ma sempre attuali.

Il primo testimone è don Pino Puglisi, di cui ieri 21 ottobre abbiamo celebrato la memoria liturgica. In realtà lui è stato ucciso il 15 settembre 1993, ma il suo ricordo viene fissato nella data del suo battesimo. Don Pino fu testimone del Vangelo in terra di mafia, a Palermo, nel quartiere Brancaccio e venne ucciso proprio per il suo impegno nell’impedire che i ragazzi e i giovani finissero nelle mani della mafia.

In un intervento a Trento nell’agosto del 1991 ebbe a dire: «La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza». Parole profetiche.

Il suo killer, Salvatore Grigoli, uno dei più spietati di Cosa nostra che ha confessato 46 omicidi ed è implicato in varie stragi e attentati, racconta: «C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani». «I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i mandanti) non andavano alle sue messe. Ma Cosa nostra sapeva tutto… C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».

Così ricorda la sera dell’omicidio: «Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava». «Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando) gli tolse il borsello e gli disse: Padre, questa è una rapina. Lui rispose: Me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».

Continua Grigoli: «Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

La testimonianza data in faccia alla mafia con il Vangelo e con il sorriso, non con i musi di certi cristiani che pensano di avere sulle spalle la responsabilità della salvezza del mondo… Con il sorriso.

E poi il secondo testimone del Vangelo è padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita che è stato rapito in Siria proprio nei pressi di Raqqa nel luglio 2013 per il suo impegno e la sua testimonianza di dialogo con il mondo musulmano e i diritti delle minoranze e per il quale oggi vogliamo pregare.

Padre Paolo aveva una grande fiducia nel dialogo, radicata nella profonda conoscenza del Corano e della tradizione spirituale dell’Islam, e questa speranza lo aveva portato a ricostruire nel deserto a nord di Damasco il monastero di Mar Musa (san Mosè) come concretizzazione di un’idea, di un’utopia: quella di vivere con coerenza gli insegnamenti di Gesù per costruire un mondo più giusto.

Espulso dal regime di Assad, proprio per il suo impegno nella difesa delle minoranze, padre Paolo credeva fermamente nella spiritualità che va di pari passo con il rispetto dei diritti umani. Così scriveva: «Testimonieremo con i musulmani e gli ebrei il bisogno di superare la corruzione economica contro ogni mafia etnica e comunitaria. Testimonieremo in favore di una società dove la tolleranza benevolente verso ogni minoranza è l’espressione della nostra vicinanza alla dolcezza del Maestro di Nazaret. La testimonianza cristiana non può separarsi dalla sua prospettiva escatologica e si coniuga con le speranze musulmana ed ebraica».

Di questo mi siete testimoni, diceva Gesù. E in qualsiasi contesto viviamo è possibile per noi essere testimoni del Vangelo. Ma, come diceva padre Paolo, «Evitiamo i gargarismi evangelici. Vediamo che cosa siamo disposti a rischiare come persone, come comunità e come “civiltà”. Proviamo a immaginare un modo di sporcarci le mani!».

Proviamo ad immaginare un modo di sporcarci le mani, come hanno fatto Pietro, Cornelio, don Puglisi e padre Paolo, seguendo le orme del testimone Gesù.

(At 10,34-48; Lc 24, 44-49)