SOLENNITÀ DEL SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO - Giovedì successivo alla I Domenica dopo Pentecoste - Mc 14, 12-16. 22-26


(Es 24, 3-8; Mc 14, 12-16.22-26)

La Parola di Dio, che il concilio chiama la prima delle due mense di cui è costituita la celebrazione, fa luce sul mistero che celebriamo in occasione di una festa qual è quella Corpo e Sangue del Signore, nata in un contesto storico lontano dal nostro, e che possiamo celebrare senza nostalgie o rimpianti trionfalistici.

Infatti il vangelo di Marco ci proietta nel contesto drammatico dell’ultima cena e dalle parole che Gesù pronuncia comprendiamo il senso che Lui dà alla propria vita, ormai sotto la minaccia della morte.

Quando Gesù durante la cena pasquale prende il calice del vino e pronuncia le parole che anche noi ogni domenica ripetiamo e non senza un qualche tremore: questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti, legge la sua morte, che di per sé è stata un evento non cultuale, non messianico, esecrabile.

Perché questa era l’intenzione dei nemici di Gesù: consegnandolo ai romani perché fosse crocifisso piuttosto che lapidato o decapitato, lo smentivano clamorosamente come Messia perché il Messia d’Israele non poteva essere consegnato in mano ai pagani e finire in quel modo: con una condanna ingiusta quanto crudele, la più terribile morte immaginabile, quella di un maledetto da Dio e di uno scomunicato dal popolo.

Gesù per contro dichiarando: questo è il mio corpo sul pane azzimo, dice: questo pane offerto e spezzato, sono io!

E così sul calice di vino: ecco il sangue dell’alleanza, è la nuova alleanza, perché è definitiva nel mio sangue e non più in quello degli animali, come quella che abbiamo sentito nella prima lettura con Mosè.

La sua morte come il segno di un’alleanza nuova di Dio, non che Dio avesse bisogno del sangue del Figlio! Un Dio adirato con l’umanità e saziato dal sacrificio del Cristo… come potrebbe chiamarsi ‘padre’ un Dio così?

Con la morte di Gesù, Dio dice di stabilire con l’umanità un’alleanza che nemmeno la morte può far decadere, questo testimonia il sangue del Figlio crocifisso, che viene risuscitato.

L’Eucaristia celebra il mistero pasquale, è la celebrazione di questo mistero di morte e risurrezione, che in definitiva è un sacramento d’amore, perché il morire di Gesù è un morire per, come dice lui stesso per molti.

Ma Gesù non è morto per tutti? Perché questa traduzione per molti?

Forse ricorderete qualche mese fa in seguito a una lettera di Benedetto XVI (14.4.2012) in cui chiede che nella prossima edizione del Messale si usi l’espressione per molti in luogo di quella che si utilizza oggi per tutti, aveva suscitato una certa reazione.

La questione è molto importante, è una questione teologica, perché se io oggi dico che molti studenti sono stati promossi all’esame, vuol dire che non tutti sono stati promossi.

Vorrebbe forse dire che allora il sangue di Gesù è versato per molti ma non per tutti?

Molti testi del NT ripetono che Cristo è morto per tutti. Paolo nella seconda lettera ai Corinti scrive che l’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti (5, 14). Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti, è scritto nella Prima a Timoteo (2,6). Giovanni nel sesto capitolo del suo Vangelo riporta le parole di Gesù: Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per le vita del mondo. Quindi si tratta di un’offerta universale, non riservata a un numero di destinatari.

Infatti diciamo che Gesù è il Salvatore del mondo, la sua salvezza è offerta a tutti.

Gesù non ha fatto nessuna restrizione previa, non ha escluso nessuno da questa offerta. Anche se poi questa offerta deve essere accolta e qui entra in gioco la libertà umana.

Il problema è di traduzione perché il testo evangelico è scritto in greco, ma traduce il modo di esprimersi di Gesù in aramaico. Nella lingua usata da Gesù non c’è la distinzione molti-tutti, non esisteva questa opposizione e la parola rabim significa soltanto un grande numero senza specificare se questo grande numero corrisponde o meno a tutti.

Che cosa ha voluto dire Gesù? Il Signore da vero semita qual era si è espresso con parole che non intendono certamente escludere nessuno, ma non per questo si deve intendere che la nostra risposta al suo dono non sia necessaria.

Infatti Benedetto XVI spiega che il «tutti» comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto storicamente nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, il dono di Cristo giunge solo a «molti».

Dio non cerca nessuna efficienza, è amore puro, gratuito che si dona prima ancora di sapere quale sarà la risposta dell’uomo.

Cosa che suscita in noi un continuo stupore, un continuo ringraziamento, al punto che questo sarà uno dei primi nomi con cui viene chiamata la celebrazione del mistero pasquale di Cristo: eucaristia, rendimento di grazie!

Il mistero pasquale celebrato nell’Eucaristia diventa per noi l’occasione per guardare a noi stessi, per interrogarci sulla nostra vita, su come essa prenda o no la forma della vita di Cristo.

Non è questione di sapere se ci meritiamo la comunione con Gesù! La comunione non è un merito, è un dono che ci trasforma, che trasforma la nostra esistenza perché il Signore si presenta a noi come colui che pone il problema della scelta della forma dell’esistenza: come cristiani non possiamo averne una al di fuori di quella che ci è presentata dal Signore nell’Eucaristia.

Fare la comunione, come si suole dire, o meglio comunicare al Corpo di Cristo significa lasciarsi trasformare nella forma del vivere di Cristo, che è essenzialmente in due direzioni: nell’abbandono fiducioso al Padre e proprio per questo nella solidarietà totale con gli altri.

Ecco perché celebriamo di domenica in domenica con fedeltà l’Eucaristia: perché crediamo che Gesù è il Signore, che il suo modo di vivere è il migliore e perché vogliamo che la nostra vita, il nostro modo di essere, di pensare, di agire e di amare sia sempre più conforme a quello di Cristo.

E credo davvero che sia l’unico modo per parlare seriamente di pace, di amore: per questo portiamo all’altare la sofferenza dell’umanità, il dolore di chi non vede futuro perché senza lavoro, portiamo all’altare la sofferenza che vive in ogni nostra famiglia e specialmente di quelle che hanno perso ogni cosa a causa del terremoto: il Signore come trasforma il pane e il vino, così trasformi questo impasto di dolore e di amarezza in speranza e pace.