II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11


La Chiesa italiana celebra oggi, 17 gennaio, la giornata per l’approfondimento del dialogo tra cattolici ed ebrei[1]. Non è per intenderci la giornata di preghiera “per” gli ebrei, ma vuole essere l’occasione per imparare ad apprezzarci, ad avere famigliarità gli uni con gli altri, per rinsaldare ciò che abbiamo in comune, come la fede in unico Dio, l’onorare il suo nome, il santificare il sabato e rispettare i comandamenti, cose ormai non più tanto normali né scontate.

Noi cattolici siamo debitori di stima e di conoscenza nei confronti della cultura, della spiritualità e della fede ebraica. Come ho già detto altre volte non possiamo comprendere il vangelo di Gesù, se non conosciamo la radice ebraica di Gesù, se non conosciamo il Primo testamento. Perché Gesù, figlio di Dio, è ebreo e rimane ebreo per sempre.

Prendiamo la prima lettura di oggi che ci ha fatto per così dire “assaggiare” la storia di Ester. È la vicenda di una donna ebrea deportata con gran parte della sua gente e diventata – per la sua bellezza – regina nell’harem del re persiano Serse I (486 – 465 a.C.).  Forse pochi di noi ricordano questo libro, ma ci è utile richiamarlo perché ha una stretta connessione con Cana di Galilea, non solo perché anche in quel racconto c’è un terzo giorno, c’è un banchetto e ci sono due donne dalle quali dipende il futuro di un popolo.

Il tempo che vive Ester è un tempo oscuro, difficile: c’è un piano ordito dal primo ministro all’insaputa del re, per annientare tutti gli ebrei in un unico giorno, un giorno tirato a sorte[2].

Il nome “Ester”[3] significa nascondere – e questo tra l’altro apprezziamo molto dalla sensibilità ebraica: il significato del nome segna un destino -, e sembra dire che l’Eterno abbia nascosto il suo volto, non guardi più la sua gente (è proprio il contrario di quanto abbiamo ricordato all’inizio dell’ anno con le parole di Aronne: il Signore rivolga a te il suo volto, faccia splendere il suo volto su di te) al punto che nella versione ebraica del libro di Ester non si nomina mai il nome di Dio, mai.

E voi direte: ma cosa c’entra questo con Cana di Galilea? Sono entrambe, sia pure diverse nella loro gravità, due situazioni sfavorevoli, due condizioni critiche, così come ce ne sono tante nella vita di ciascuno di noi. Ebbene come si ribalta una situazione sfavorevole, una condizione negativa?

Ester risponde che si può cambiare la situazione negativa nella quale sembra che il Signore abbia nascosto il suo volto, con la preghiera e il digiuno (v. 1 il terzo giorno di digiuno): perché così si manifesta non la nostra forza e il nostro potere, ma la fedeltà dell’Eterno.

Così Ester organizza un banchetto nel quale si ribalta la sorte del suo popolo già condannato: il re venuto a conoscenza della trama del suo primo ministro Aman, manderà a morte quest’ultimo e salverà gli ebrei dallo sterminio.

Certamente a Cana il contesto è meno drammatico, ma anche Maria di Nazareth, donna di fede sa che l’Eterno può ribaltare le situazioni, non a caso canta nel suo Magnificat che il Signore innalza gli umili e abbatte i potenti, come aveva creduto e sperato Ester.

Quello di Cana, nel vangelo di Giovanni, è per Gesù il primo dei sette segni con i quali “manifesta la sua gloria”; dopo Cana guarirà il paralitico, moltiplicherà i pani, e risanerà un malato, ridonerà la vista al cieco nato, richiamerà Lazzaro alla vita. Questo per dire che la gloria di Dio è il fatto che l’uomo viva, che non muoia, che gioisca, che non patisca tristezza.

La gloria di Dio è la gioia dell’uomo e allora Gesù trasforma l’acqua in vino, ma questo è solo un segno e a cosa rimanda questo segno? Rimanda ad un’ora che sarà davvero drammatica, cioè all’ora di Gesù. Il Signore infatti dice che non è ancora giunta la sua ora: oggi c’è il segno e a tempo opportuno, nell’ora della croce ci sarà la realtà.

In quell’ora ad essere versato non sarà più il vino, ma il suo sangue, segno dell’amore appassionato del Signore che si dona, come si versa il vino nel calice, in quell’ora avverrà il grande rovesciamento della morte in resurrezione, dell’infamia in gloria.

A Cana, come già nella prima lettura, è una donna che ci insegna a fidarci di Dio. Questa è la ferma convinzione di Maria quando dice: Qualsiasi cosa vi dica, fatela.

Maria non può immaginare cosa ha in mente il Figlio, non sa cosa dirà Gesù, non sa cosa potrà esigere dai servitori, se li manderà a comprare o se farà qualche altra cosa … Ella non sa niente di come Gesù abbia pensato di uscire da quella condizione, infatti le sue parole sono indeterminate: Qualsiasi cosa vi dica, fatela, ma nel cuore ha la certezza che ci si può fidare di Dio, c’è la grande speranza che lui non delude, perché Gesù è la via d’uscita dalle situazioni apparentemente chiuse della storia.

Anche a noi succede di finire il “vino” cioè la gioia della vita, di perdere il senso di quello che facciamo … Viviamo anche noi talora dei momenti in cui avvertiamo il silenzio di Dio, in cui ci pare che non risponda o ci risponda contrastando ciò che gli abbiamo chiesto. La percezione di aver sbagliato e di essere entrati in una situazione senza uscita, è una delle più amare della vita. Magari sono sufficienti due o tre eventi sbagliati per turbarci, per farci sentire come in trappola ed è facile ricorrere ai surrogati, cercare evasioni (droga, alcool …).

È dura per l’uomo contemporaneo, come per l’uomo di sempre, attraversare le prove della vita continuando a fidarsi di Dio ed è facile che si generi l’atteggiamento opposto a quello suggerito da Maria, per cui uno arriva a dire: so io qual è il mio bene, il mio interesse, il mio godimento, il tempo è mio, la vita è mia.

La parola di Maria va in un’altra direzione: qualsiasi cosa dica, fatela. Fate quello che dice Gesù perché c’è una via d’uscita, per ogni nostra situazione, per il mondo che a noi sembra condannato alla guerra, alla fame, al disastro ecologico, per le religioni che alternano momenti di dialogo e tempi di irrigidimento ….

L’invito di Maria sottolinea il suo spirito pratico, la sua parola è orientata alla prassi: fate! Non dice: pensate, riflettete, organizzate tavole rotonde … che è uno spirito eccessivamente astratto e teoretico che talora si ritrova anche nella Chiesa, per cui si ritiene che i problemi non siano mai stati chiariti sufficientemente, non siano stati ben analizzati sviscerati, che occorra andare più a monte del problema.

È necessaria un po’ di riflessione, ma se rimanda all’infinito il fare … diventa un alibi! Fate il vangelo, vivete la parola di Gesù.

Come si cambia una situazione sfavorevole, fosse anche una condizione in cui sembra che perfino il Signore abbia distolto il suo volto da noi? Facciamo il vangelo, viviamo la parola di Dio, come ci insegna l’esperienza delle due donne, Ester e Maria, che possono essere per noi il segno della prima e della nuova alleanza, della sinagoga e della chiesa che – come dice la bellissima immagine del profeta Sofonia, a cui anche la “Nostra Aetate” fa riferimento (n.4) – spalla a spalla (3,9), cioè l’una accanto all’altra (e non che si danno spallate l’una contro l’altra), tengono viva la fede nell’Eterno per cambiare il corso delle cose.

(Est 5, 1-1c.2-5; Ef  1, 3-14; Gv 2, 1-11)

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[1] Nel pomeriggio di domenica 17 Benedetto XVI visiterà la sinagoga di Roma.

[2] Pur, da cui purim: le sorti; è il nome della festa annuale in cui si ricorda che Dio capovolse le sorti innalzando gli umili e rovesciando i potenti.

[3] In ebraico Istar dalla radice hester significa “nascondere”, in persiano stareh, cioè stella.