DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Lc 23, 36-43
Per una curiosa coincidenza la liturgia di oggi, ultima domenica dell’anno liturgico ambrosiano, ci invita a contemplare la croce, proprio quella croce che in questi giorni è stata oggetto di discussione, di dibattiti; tante persone di cultura, autorità, maestri di pensiero hanno offerto il loro parere sulla legittimità o meno di esporla in luoghi pubblici, sulla laicità dello stato e delle sue istituzioni… Vorrei che almeno noi ci misurassimo su questo mistero che non finisce di inquietarci come discepoli di uno che ha dato la sua vita.
Certo è che se noi prendiamo l’albero della Croce in se stesso e lo sradichiamo dal Vangelo, diventa facilmente uno strumento di divisione da usare «contro» qualcuno – e non sarebbe una novità nella nostra storia – contraddicendo quello che ha voluto significare e che continua a significare per colui che sulla croce è salito: essere un segno di riconciliazione e di contraddizione.
Anzitutto un segno di contraddizione. Concludiamo oggi l’anno liturgico con la festa di Cristo re, una festa istituita da Pio XI al tempo del fascismo (1925) come a lanciare un messaggio chiaro nei confronti dei totalitarismi politici (e non senza nostalgia del potere temporale). Ma il Vangelo cosa dice della regalità di Cristo?
Dobbiamo sempre guardare le cose con il Vangelo in mano per non trasformare la fede in un’ideologia, e con il Vangelo in mano vediamo l’abisso che sussiste tra la nostra idea di re, tra l’iscrizione posta sulla croce «questi è il re dei giudei» e lo spettacolo dell’impotenza del crocifisso: Che re è costui? Inchiodato mani e piedi, sconfitto come uomo e umiliato come Dio? Costui è il Signore?
Ma i veri signori, secondo i burattini del potere, non finiscono in croce. Dio meno di ogni altro. Tutti sappiamo che i veri signori comandano e basta. Non spiegano nulla, comandano gli altri e difendono se stessi. Punto. Il resto è già debolezza.
E questo ci abita tutti: tutti siamo affascinati intimamente da questo modo di pensare, perchè in fondo ci permette di immaginare e di inseguire i vantaggi che desideriamo.
Noi diciamo che l’autorità è servizio, ma sono belle parole, perchè di fatto il prestigio e il potere, la sicurezza del comando e la perentorietà dell’imperativo… pagano di più e premiano in termini di credibilità.
I capi delle nazioni – che secondo l’ammonimento di Luca dell’ultima cena non andrebbero imitati – passano sempre per benefattori e gli schiavi ringraziano anche. Se uno salva se stesso è più credibile di chi dona se stesso. Ha più successo. Non è un caso se questo grido come una sfida per tre volte risuona sotto la croce. Prima i capi del popolo (v.35), poi i soldati romani (v.37) e perfino uno dei due delinquenti (v.39): «Salva te stesso»!
Se riesci a cavartela da qui, sei davvero credibile. La croce diventerebbe segno di potenza, di orgoglio, esibizione di un potere mondano irresistibile.
Avrebbe ragione quella «preghiera alla rovescia» che uno scrittore contemporaneo mette nel cuore di Maria alla nascita di Gesù e che dice così:
«Signore del mondo, benedetto, ascolta la preghiera della tua serva adesso è una madre. Quando nasce un bambino la famiglia si augura che diventi qualcuno, intelligente, si distingua dagli altri. Fa’ che non sia così. Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui. […] Fa’ che sia un cucciolo qualunque, anche un poco stupido, svogliato, senza studio, un figlio che si mette a bottega da suo padre… noi penseremo a trovargli una moglie, lui si metterà sulle ginocchia una squadra di figli. Signore del mondo, benedetto, fa’ che abbia difetti, non si occupi di politica, vada d’accordo coi Romani e con tutti quelli che verranno a fare i padroni a casa nostra… Fa’ solo che questo bambino sia nessuno nella tua storia, fa’ che sia un uomo semplice, contento di esserlo e che si arrabbi soltanto con le mosche. Fa’ che non sia bello, non susciti invidie. Ascolta la preghiera alla rovescia della tua serva…. Sia nessuno questo tuo Ieshu, sia per te un progetto accantonato…» (Erri de Luca, In nome della madre).
Quando il Signore, arrivato il momento, sale ed entra in Gerusalemme, molti in città si aspettano da lui un gesto politico, un segnale che inneschi la miccia corta dell’insurrezione. Appena uno ha notorietà e potere sulle masse basterebbe così poco… e invece Gesù al culmine del suo percorso in terra compie il gesto di abbassarsi, come di ce Paolo con due verbi da vertigini: si svuotò, umiliò se stesso.
Difficile da capire anche per i suoi Dodici che si vedono lavare piedi, e osservano sconcertati il Maestro chinarsi «là dove poggia il peso e la statura di ognuno, i piedi che non portano corone».
Se anche per assurdo si potessero cancellare tutti i segni del passaggio del cristianesimo sulla faccia della terra, se come d’improvviso tutte le cattedrali che costellano le città d’Europa svanissero e tornassero ad essere pietre nelle cave da cui provengono… finché c’è uno che ancora crede che regnare è servire, che comandare è donarsi, che governare è lavare i piedi, così come si «rigoverna» una cucina, per dire il servizio umile che non si vede e che nessuno vuol fare, finché c’è uno che per amore si lascia spezzare come il pane e spremere il sangue come si spreme il vino dall’uva… fino a quando c’è qualcuno che si fida di un Dio così, allora c’è ancora speranza e futuro per la nostra umanità.
Non acconsentiamo all’ipocrisia di chi si adorna di cristianesimo per interesse, perchè di sepolcri imbiancati è pieno il mondo e sono i peggiori e costoro fanno più male all’uomo degli atei, questo lo impariamo da Gesù e lo trovo pressoché ogni giorno sempre più vero.
Infatti sulla croce il Cristo non ce l’hanno messo i non credenti, ma i clericali di allora, i sepolcri imbiancati che per difendere i loro simboli erano disposti a uccidere.
Ma lui è riuscito ad essere Signore anche in croce prima nei confronti dei suoi aguzzini: «Padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno» (v.34) e poi rivolgendosi al delinquente con parole che suonano come una carezza assoluta: «Dove vado io vieni anche tu».
Non un parola di più, non una predica di circostanza, semplicemente «Dove vado io vieni anche tu, oggi sei con me».
A questo punto comprendiamo la croce, oltre che segno di contraddizione, anche come segno di riconciliazione, di comunione.
A distanza di duemila anni forse ci sfugge il dramma dell’uomo Gesù che trafitto dai chiodi, deve essere stato attraversato anche dalle nostre umane domande: ma sarà proprio vera questa logica del dono? Perchè sacrificarmi? Perchè morire per costoro che nemmeno si rendono conto?
La teologia ci dice che la croce è il sacrificio di Cristo, che Gesù si offre per i nostri peccati, ma Dio aveva forse bisogno di sangue per essere placato nella sua ira? Certamente non il Padre di Gesù. Dio non ha bisogno di vittime. Piuttosto consegnandosi Cristo ha smascherato il nostro desiderio insaziabile di trovare sempre una vittima, un colpevole, un capro espiatorio.
In ogni situazione difficile, la via d’uscita più scontata da sempre nella storia dell’umanità, è quella di scaricare sui poveri e sugli emarginati le colpe e le cause di ogni male. Ancora oggi le società definiscono la loro identità in funzione di coloro che esse emarginano ed escludono, sacrificandoli sull’altare della sicurezza e del benessere. Noi crediamo che questo sia necessario perchè possiamo vivere… ma Gesù occupando una volta per tutte precisamente questo posto, lo spazio del capro espiatorio, lo spazio delle nostre vittime, ci consegna il Vangelo della liberazione perchè non ci sia più bisogno di mettere qualcuno sulla croce.
Anche il Signore poteva scaricare su Giuda la colpa del suo fallimento… ma ricorderete la domanda che gli rivolge nel Getsemani: Amico perchè sei venuto?
Questa è la domanda che sarei tentato talvolta di porvi ogni volta che ci accostiamo alla comunione: Amico perchè sei venuto? Sei qui per imparare ad amare o per che altro? Perchè il Signore sa che se uno ama, sarà crocifisso; ma se uno non ama, è già morto dentro, proprio come Giuda.
Credo che il cristianesimo, il nostro cristianesimo di questo tempo, non possa avere futuro se non continuando a fare quello che ha fatto il Signore, a stare nella storia come ha fatto lui, ad «avere i suoi stessi sentimenti», come dice Paolo: chiediamo che ci conceda di essere signori anche quando veniamo messi in croce.
(Is 49, 1-7; Fil 2, 5-11; Lc 23, 36-43)