IV DI PASQUA - Gv 15, 9-17
In queste poche righe di Giovanni, dodici volte si parla di amore e di amicizia, cinque volte si parla di comando e comandamento, quattro volte è nominato il Padre … in un incalzante e pressante argomentare che Gesù precisa come “mio”: “il Padre mio”, così anche l’amore è “il mio amore”, “i miei comandamenti”, “i miei amici, la mia gioia”. E poi: “Io vi comando, io vi ho amato, io vi ho fatto conoscere, io ho scelto voi …”.
Questo modo di parlare ci fa percepire l’urgenza che Gesù vive e l’importanza di trasmettere ai suoi quello che davvero gli sta a cuore, Gesù parla qui in termini “testamentari”: che cosa lascia ai suoi discepoli nel momento in cui si rende conto dell’imminente passione?
Non siamo di fronte ad un generico appello alla nostra buona volontà, a dar fede a un comandamento nel senso più comune, a una coercizione che ci viene dall’alto o dall’esterno. Gesù consegna ai suoi le due dimensioni più indispensabili alla vita: l’amore, l’amicizia fra di loro e l’amore del Padre. Che sono le due relazioni costitutive di Gesù stesso, la sua umanità e la sua divinità di cui rende partecipe ciascuno di noi. Gesù ci dice di non dimenticare che il primato dell’amore di Dio trasforma una fede fondata sulla paura, sul ricatto, sul senso di colpa, in una fede che converta la libertà al comandamento dell’amore.
La fede che Gesù dona ai suoi è vivere la propria libertà all’insegna del primato dell’amore di Dio: in quanto amato, posso amare l’altro e – cosa anche difficile – amarmi. Ciascuno può amare se stesso, in quanto è amato da Dio. Ciascuno può essere amico dell’altro, perché Dio è suo amico.
È questa la sorgente della novità di Gesù: il riconoscimento dell’amore di Dio, più che dell’amore per Dio. Non viene anzitutto il nostro amore per lui, non facciamo bene le cose quando le facciamo per amor di Dio! Diceva bene Simone Weil: «In senso generale “per Dio” è un’espressione scorretta, Dio non dev’essere messo al dativo. Non andare verso il prossimo per Dio, ma essere spinti da Dio verso il prossimo come la freccia è spinta dall’arciere verso il bersaglio».
Qui abbiamo quello che conta, qui il Signore ci dona l’essenza radicale del Vangelo: che cosa ha fatto credere a un pugno di pescatori di Cafarnao che già credevano in Dio, che già erano persone religiose, a loro modo probabilmente, come ognuno di noi lo è a proprio modo, ebbene che cosa li ha convinti a credere al modo di Gesù, che cosa li ha sospinti ad amarsi al modo di Gesù?
È una domanda che mi sta profondamente a cuore, perché credo che sia la domanda che si impone oggi per noi nel momento in cui vorremmo tanto che i nostri giovani tornassero a credere: che cosa è che li può convincere che ci si può fidare di Cristo? Che la sua parola è piena di senso per le loro e nostre vite?
Possiamo rispondere ripercorrendo il cammino che Gesù fa compiere ai suoi discepoli: anche allora la religione era ben strutturata e organizzata con le sue gerarchie e le sue verità, la storia era in qualche modo tracciata.
Eppure di fronte a una società che in nome di Dio e nella ricerca della quiete pubblica, favoriva mille e più forme di ingiustizia e di ipocrisia, il Maestro di Nazareth cosa fa?
Fondamentalmente due cose: compie dei gesti capaci di prossimità scandalosa che abbattono i pregiudizi, le divisioni, e vincendo la logica di Caino, ci chiede di vincere il male con il bene.
In secondo luogo riapre il sentiero della speranza di un rapporto con Dio per coloro che ormai non si aspettavano niente di nuovo, forse neanche più dall’Eterno, un Dio conosciuto e amato come un Padre, di cui Gesù è Figlio.
Ebbene Gesù consegna ai suoi come cuore del messaggio evangelico queste due pilastri, affinché li possano a loro volta trasmettere alle generazioni di discepoli che seguiranno.
Ed è questa una responsabilità bella, perché il Signore ci dona di ricentrarci sull’essenziale e di spogliare il nostro credo dai troppi orpelli che nascondono la genuinità del messaggio evangelico.
Guardando al racconto degli ultimi quattrocento anni di storia della Chiesa domandiamoci: è questo ciò che riceviamo?
Accanto a figure e ad eventi che hanno confermato la fedeltà al dato evangelico, abbiamo anche una chiesa che è entrata nell’agone delle battaglie culturali, sociali e storiche più importanti spesso in seconda battuta e sulle difensive.
È stato così con l’avvento della modernità, con l’emancipazione della scienza dalla custodia della teologia, su tutte emerge l’amara vicenda legata a Galilei.
È stato così con l’illuminismo, il romanticismo: un andirivieni tra condanne e piccole aperture.
È stato così anche con il modernismo, mentre il mondo cambiava radicalmente, sotto le spinte di Darwin, di Marx, di Nietzsche, di Freud, di Einstein e di molti altri.
La stessa opposizione al regime fascista e quello nazista fu solo raramente all’altezza del reale pericolo per il destino dell’umanità.
E da ultimo come non ricordare la lunga ed estenuante battaglia contro il comunismo che assorbì ogni energia fisica e mentale, mentre lo spirito occidentale veniva sedotto e in parte corrotto da nuovi stili di vita e di pensiero che si sono imposti su larga scala?
Mentre consegniamo le nostre forze nel mettere etichette ora sul relativismo, ora sul nichilismo e poi sul post- moderno e infine sulla società “liquida” … mi chiedo se sia questo l’annuncio che come Chiesa siamo chiamati a dare, non dovremmo piuttosto essere capaci di un sussulto di coraggio testimoniando un interesse genuino, vero e gratuito per consegnare l’essenziale del Vangelo di Gesù alle nuove generazioni, ai nostri giovani?
Basterebbe concentrarci su quell’avverbio che ritorna diverse volte nel vangelo di Giovanni: come il Padre ha amato me, così.. come io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri … Quel come è un avverbio che non esprime soltanto il modello, l’esemplare da copiare, ma soprattutto dice la causa che dà origine a un movimento che parte da Dio e dalla sua scelta di amare.
Gesù vuole una comunità, una chiesa dove conta più l’avverbio del verbo: “come” il Padre, “come” Gesù. Amare sì, ma come Cristo, perché è lui la misura dell’amore e il riferimento alla motivazione profonda che sorregge il comandamento, perché non sia un comando esteriormente imposto alla decisione umana. Non è questa forse l’ora in cui dobbiamo tornare a consegnare alle nuove generazioni quel come io vi ho amati che conta più di tutti i verbi? Sì, per Gesù, per il regno di Dio, è più importante l’avverbio del verbo: ciò che conta è quel “come”. Essenziale è l’avverbio.
(Gv 15, 9-17)