IV DI PASQUA - Gv 10, 1-10
(Gv 10, 1-10)
Nel cuore della gente che ascoltava Gesù era vivissima l’impressione lasciata dall’evocazione dell’immagine del pastore. Abramo era un pastore principesco, i suoi greggi erano così numerosi che lo stesso paese dove abitava non aveva abbastanza spazio; pastore era Isacco; pastore era Giacobbe, colui che ebbe a lottare con Dio. Quando i figli di Giacobbe, al tempo della carestia, andarono in Egitto, Giuseppe presentò al faraone i suoi fratelli come pastori di pecore… e potremmo continuare ad elencare un popolo itinerante di pastori, come Davide, il pastore, chiamato da Dio a
diventare re.
Di qui possiamo colmare la distanza che c’è tra noi e gli ascoltatori di Gesù e comprendere il pastore come un’ immagine che mi sembra possa dirci almeno due cose: anzitutto gli uomini sono per Dio le sue pecore, egli le conosce… Dio conosce l’uomo. Egli sa cos’è ogni singolo uomo. Per questo la sua parola va alla sostanza delle cose. Per questo l’uomo è più radicalmente compreso nella parola di Gesù di quanto ciascuno di noi sia in grado di comprendersi. Per questo l’uomo può riporre la sua fiducia nella parola di Gesù.
Ma dice anche che le pecore odono il pastore e conoscono la sua voce. Gli uomini dunque conoscono la sua chiamata e il nostro cuore risponde… ma è realmente così? Dovrebbe essere così, se lo dice Cristo, il problema è che io ascolto più attentamente la voce degli altri, del parere di chi mi vede e mi giudica, sono più condizionato dall’immagine e dal riscontro che ho nelle persone che mi stanno intorno….
In noi non vi è solamente quell’io profondo che sta in ascolto di Dio, ma abita anche la contraddizione che lo rifiuta. Il lupo, davanti al quale il mercenario fugge, non è solo fuori, ma anche dentro di noi. Il più grande nemico della nostra redenzione
siamo noi stessi. A questo punto ci viene in aiuto Gesù con una seconda similitudine.
Immaginiamo il Signore in Gerusalemme nei pressi del tempio, vicino a quella porta collocata a Nord est, chiamata «Porta delle pecore» (Nee 3,4) perché da lì venivano fatte passare le pecore per acceder all’atrio del tempio dove sarebbero poi state offerte in sacrificio, sta ad osservare la gente che entra nel cortile del tempio [non parla infatti di ovile (epaulis), ma di cortile (aulé)…], da lì si passa per cercare l’incontro con Dio. Ora il Cristo dice: Io sono la porta, tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti.
Se ci consola la definizione del Cristo di essere la porta per accedere all’incontro con Dio, tuttavia il seguito delle sue parole è durissimo. È un’affermazione tremenda. Tutti, tranne lui sono ladri e briganti! Così è scritto. Chi intende il Signore? Forse
Abramo, Mosè, o i Profeti? Bisogna tenere presente che all’epoca nel mondo giudaico il termine «brigante» designava i partigiani ribelli, infatti Barabba dallo stesso Giovanni è definito «brigante» (18,40), non nel senso che intendiamo noi di
contrabbandiere e di bandito, ma nel senso che intende Luca, quando scrive che era sato arrestato «per una sommossa avvenuta nella città» (23,19).
Questa ribellione è un fatto storico, e sembra proprio che il Signore prenda le distanze da un tentativo allora compiuto dagli zeloti di impadronirsi del potere entrando nel recinto stesso del tempio. Più in generale, Gesù prende le distanze dai movimenti pseudo messianici dell’epoca che non escludevano il ricorso alla corruzione e alla violenza per liberarsi dalla dominazione romana.
Dice Gesù: Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. È curioso come per indicare questa porta il Cristo non usa il termine per indicare ad esempio le porte della città, il portone del tempio… suggerisce piuttosto l’idea di una porta di casa (qu/ra), anzi in Matteo dirà che questa porta è una porta stretta (7,13).
Per incontrare il volto di Dio l’accesso è possibile passando attraverso il Cristo e questa porta è comunque una porta stretta.È stretta perché ci si passa uno alla volta, non ci si passa in gruppo, resi più forti dalle appartenenze e dalle tessere, ci passiamo da soli, senza famiglia, senza parrocchia!
È stretta anche perché non possiamo portare con noi troppe cose ingombranti, dobbiamo essere sciolti, leggeri, liberi e non zavorrati da tante cose. Soprattutto è stretta perché gli stipiti e l’architrave sono due pezzi di legno simili alla croce.
Non è per dolorismo che Gesù ci dice questo, ma perché come ci stiamo rendendo conto nella nostra vita e come questo tempo di Pasqua ci va ricordando: il mistero che non finiamo mai di conoscere è che per amore bisogna soffrire, per vivere bisogna morire al nostro orgoglio, alla nostra superbia, alla nostra arroganza.
Un amore che non passa nel crogiuolo della prova e che non soffre nel portare i limiti e gli errori propri e dell’altro, non è amore, è esercizio di narcisismo, è ancora ricerca di se stessi.
Un amore senza dolore è una porta chiusa, un amore senza patimento è come un muro, una parete che chiude e impedisce di essere liberi. Infatti Giovanni usa il verbo del vocabolario dell’esodo: come Dio fece uscire dall’Egitto il suo popolo… allo stesso modo Gesù fa uscire le sue pecore dalla schiavitù, non con la violenza delle armi e della prepotenza, non con il potere della
corruzione e del denaro, ma con la forza suadente della sua voce, della sua parola perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Questo è ancora l’esercizio del cristianesimo che ci è chiesto dal nostro tempo, un cristianesimo della porta. Per la porta, lo dice il Cristo stesso, si passa, si entra e si esce. Ed è un’immagine che dice un cristianesimo del dialogo, dell’incontro, dell’apertura.
Non è il cristianesimo del bastione, della cittadella fortificata, della chiusura e della paura… Gesù non è una porta blindata, a tenuta stagna, a doppia mandata: in lui, attraverso di lui, e con lui tutti possono accedere all’incontro col volto di Dio e possono
uscire nella storia degli uomini nella libertà dell’esodo.
Abitare così la storia umana, con libertà, con un cristianesimo della porta, un cristianesimo che non esiterei a definire “laico”, nel senso vero del termine, che significa in sostanza non voler imporre il nostro modo di vedere la società, ma saper postulare
la dignità della persona umana, la libertà di coscienza, richiamandoci a quanto è comune a tutti, obbligandoci a cercare di motivare gli altri senza ricorrere a motivi derivati dalla fede, ma a ciò che abbiamo in comune.
Apriamo le porte del nostro cuore, apriamo anche la nostra mente, apriamo le porte delle nostre famiglie, della comunità perché tutti quelli che ci incontrano possano conoscere e ascoltare la voce dell’unico pastore che non si stanca mai di dirci di quale
amore Dio ama ogni uomo.