IV DI AVVENTO - Mc 11, 1-11


Ma non poteva farsi i fatti suoi? Perché Gesù decide di compiere un’azione così eclatante, così dirompente con tutti i rischi e i pericoli cui poteva andare incontro, come di fatto poi è accaduto? Perché, Gesù?

Un modo sicuro per complicarsi la vita è proprio questo, occuparsi degli altri, della città. Viceversa un modo per vivere tranquilli è farsi i fatti propri. Gestirsi le proprie cose, i propri affari, la propria famiglia… e quasi senza rendercene conto abbiamo così piegato l’altissimo ideale della pace all’idea del disimpegno. Quando diciamo: voglio stare in pace, lasciatemi in pace, diciamo proprio questa falsa concezione della pace: crediamo che farsi i fatti propri possa essere fonte di pace e di tranquillità.

Il gesto di Gesù va nella direzione contraria, perché anzitutto poteva continuare a predicare, a guarire, a fare quello che andava facendo in quegli anni e invece entra in città, affronta il cuore non solo dell’ebraismo e della religione, ma il centro vitale del suo popolo, perché Gerusalemme è più di una città, è simbolo di appartenenza e di convivenza, è segno di identità, luogo della promessa divina realizzata, e l’affronta quasi provocandola.

Così facendo Gesù si complica la vita. Se avesse pensato a sé stesso, al proprio futuro, ai propri interessi, avrebbe evitato di provocare le autorità, di sfidare l’istituzione, avrebbe evitato di costringere la gente a uscire allo scoperto, quella gente che aveva tanto coccolato nel suo ministero, ma che cambia facilmente idea schierandosi con chi conviene di più.

Perché dunque Gesù? Ne è valsa la pena? Cosa ti spinge a fare un gesto dalle conseguenze facilmente prevedibili?

Nella versione di Luca dello stesso episodio, l’evangelista così descrive lo stato d’animo di Gesù: Quando fu vicino alla città, pianse su di essa e disse: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno la via della pace… (Lc 19, 41-43).

La scena dell’ingresso di Gesù piena di entusiasmo e di applausi è improvvisamente interrotta da un pianto dirotto. Luca ci dice che c’è un rapporto importante tra quello che Gerusalemme significava e rappresentava e la missione e la vita di Gesù.

Il piangere di Gesù non è un gesto consueto, quotidiano, come non lo è generalmente il piangere di un adulto. Non è un pianto che attiene a un momento di particolare emotività o sensibilità, dobbiamo leggerlo appunto insieme con l’ingresso solenne che dice il carattere profetico delle due azioni: Gesù entra come profeta perché si introduce in città a dorso di un puledro d’asino, come avevano annunciato i profeti del Primo testamento e non a cavallo come facevano i generali e i militari[1]. Ma anche il pianto è un gesto profetico, richiamo il grido che i profeti antichi lanciarono al tempo della prima distruzione di Gerusalemme perché la città non aveva ascoltato la loro parola[2].

Infatti il pianto di Gesù sulla città è un atto pubblico, quando noi invece se dobbiamo piangere ci ritiriamo nell’intimità e cerchiamo la spalla di un amico.

Perché piangi dunque Gesù? Per il degrado della città, per la sua rovina morale e religiosa? Piangi sulla città come tale, su quello che la città rappresenta, appunto una storia, un futuro, una speranza che sembrano essere svanite?

Il motivo ce lo offre lo stesso Gesù: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno la via della pace. Gesù piange perché Gerusalemme non ha compreso la via della pace!

Gesù è consapevole che la città non accoglie il Vangelo, non accoglie la via che lui ha tratteggiato per la pace, quella via che le Beatitudini hanno indicato chiaramente: la mitezza, la non violenza, l’amore vicendevole, il perdono, la fraternità o per dirla con Isaia che riporre a un’immagine ardita, il Signore stabilirà un trono sulla mansuetudine. Un’immagine improbabile, ma che appunto il vangelo rende realistica con la schiena del puledro che porta Gesù: quello è il trono sulla mansuetudine! La schiena di un asino.

D’altronde il Signore ha avuto questo atteggiamento lungo tutta la sua vita, in ogni circostanza è vissuto con mansuetudine, con tenerezza, con dolcezza, con misericordia e le insegna ai suoi, come dice nel vangelo di Matteo: Imparate da me che sono mite e umile di cuore! (11, 29).

È facile per tutti essere miti quando si è in un contesto di persone per bene, quando si è rispettati… ma i nostri non sembrano tempi per i mansueti. Perfino il termine mansuetudine è scomparso dal nostro vocabolario. Come d’altronde ci ricorda l’ingresso in Gerusalemme di Gesù in tutta la sua paradossalità: Gesù entra come diceva Isaia, sulla sella della mansuetudine, viene applaudito e osannato… ma sappiamo bene come in pochi giorni la violenza si prese rapidamente la rivincita.

La non accettazione delle beatitudini della pace e della mitezza porta alla conseguenza opposta. Non è che se io non vivo di mansuetudine o di mitezza, rimane un mio problema di coscienza con qualche rimorso. È tutta la città, è la società, è l’umanità che ne risente e soffre per la mancanza. È la qualità umana della vita civile che ne paga il prezzo. Per questo Gesù piange, si commuove e possiamo comprendere la sua delusione… tuttavia non abbandona la città, anzi vi entra per morirvi. Egli sa che a prezzo della sua vita e del suo amore inerme rifiutato dalla città, il Vangelo verrà portato avanti.

La compassione di Gesù per Gerusalemme, il suo com-patire che significa letteralmente condividere la sofferenza della città, è il motore della sua azione, è ciò che muove le sue decisioni.

Prima di fare qualcosa per gli altri, è necessario lasciarsi raggiungere dalla sofferenza dell’altro, dal suo dolore, dalla sua ferita. Solo se sento mia la fragilità dell’altro e addirittura quella di una città, se la ospito dentro di me, posso superare l’indifferenza, posso aiutare senza mortificare, posso sperare nel futuro.

La via della pace passa da qui. Non dal farci i fatti nostri. La politica più alta o percorre la via della condivisione dei problemi, la compassione con chi rimane indietro, oppure si ritrova sotto il giudizio di Cristo: Non hai compreso la via della pace.

La politica, intesa come il governo della polis, del bene comune, come ci insegna papa Francesco e la dottrina sociale della chiesa[3], è la più alta forma di amore perché non si rivolge solo ai vicini, a quelli che la pensano come me, a coloro che se lo meritano, ma guarda a tutti, si lascia toccare dalle fragilità altrui, cerca di compensare le ingiustizie, dà la parola a chi non ha voce.

Fare politica in questo senso altissimo è un dovere morale di tutti e non solo di chi lavora nelle istituzioni. E per noi discepoli è un dovere che nasce dal seguire l’atteggiamento di Gesù, fondato sul Vangelo.

È questo ciò che manca alla politica oggi. Una visione di società, di convivenza umana e civile. Una visione che non c’è perché oggi la politica si lascia governare dal consenso, dai sondaggi… sono essi a condizionare le decisioni, quindi le scelte politiche sono di piccolo cabotaggio, calibrate al millimetro e sempre sensibili all’oscillare dei numeri.

Il pianto di Gesù ha ben chiara quale visione di città sia necessaria: una città che dà da mangiare agli affamati, dà da bere a chi ha sete, dà un tetto a chi non lo ha, cura i malati  non come clienti di un’azienda, progetta percorsi per i carcerati che non sono semplicemente da punire e rinchiudere. Una città che riveste di dignità chi l’ha perduta.

Insomma c’è bisogno di una compassione politica che non è semplicemente un sentimento, ma una visione di città, di umanità, di società che tanto manca oggi.

Chiediamo un cuore “politico”, come quello di Gesù che provando compassione per la città giunge fino a donare tutto sé stesso per lei. Per la città, per la polis appunto, dove “politico” è il contrario di “monolitico”, vale a dire di un atteggiamento indifferente e arroccato, chiuso e ripiegato su di sé e sui propri interessi.

Come ripeteva l’altra sera, il nostro arcivescovo nel discorso per la festa di s. Ambrogio: Se vogliamo aggiustare il mondo, tocca a te, a me, tocca a ciascuno di noi, tutti insieme… grazie a quelli che si fanno avanti con spirito di servizio. Anche se talvolta diventano bersagli di polemiche ingenerose e offensive, ma si fanno avanti perché sono convinti!

[1] Zaccaria 9,9

[2] Geremia 2,1

[3] Fratelli tutti, cap. 5, n.180