IV DOPO PENTECOSTE - Mt 5, 21-24
Ascoltando il racconto della Genesi, qualcuno avrà ripensato alla poesia di Salvatore Quasimodo Uomo del mio tempo, che in qualche modo costituisce una significativa attualizzazione dell’antico passo biblico:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
(Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.)
È vero, quell’eco fredda e tenace arriva fin dentro le nostre giornate: Caino e Abele sono i primi due fratelli della storia umana, secondo il cap. 4° della Genesi, ma lo sono non in senso cronologico, lo sono nel senso più profondo che ciascuno di noi è Abele e Caino al tempo stesso.
Anche questo è un racconto, come già quello di Adamo e di Eva, un racconto metastorico, per cui non lo leggiamo con la curiosità di chi cerca la coerenza dei particolari , infatti ad esempio non si registra nessuna reazione dei genitori a questo brutale omicidio.
Ma non lo leggiamo nemmeno con l’intenzione di chi, come ha fatto lo scrittore portoghese scomparso in questi giorni, Saramago, il quale nel suo ultimo libro “Caino”, giunge alla conclusione che il primo omicidio della storia è causato dal capriccio di Dio, perché Dio accettando l’offerta dell’uno e rifiutando i doni dell’altro senza un motivo esplicito, ha scatenato la violenza fratricida, se invece l’Eterno avesse gradito entrambi non sarebbe successo nulla!
Anche s. Ambrogio si pose il problema e, nel suo commento, seguendo l’interpretazione dei rabbini, ha cercato di difendere Dio dicendo che Caino offrì dei frutti in genere, non le primizie, invece Abele offrì i primogeniti del gregge. Ma rimanendo al dato biblico, se non si spiega il motivo del diverso accoglimento vuol dire che non è questo l’aspetto più importante o interessante.
Il racconto in realtà presenta uno sviluppo lineare semplice: Eva, cacciata dal giardino, comincia a rispondere al suo nome (Hawwah = vitalità, madre dei viventi) e dà vita a un primo figlio e poi a un secondo che viene definito come fratello.
Abele non è presentato come figlio di Adamo, ma come fratello di Caino e la parola “fratello” è ripetuta ben sette volte lungo il racconto. L’autore del racconto pone al centro la fraternità. Come Adamo ed Eva sono prototipi della umanità, così Caino ed Abele[1] lo sono della fraternità, gli uomini cioè sono tra loro fratelli.
La fraternità, ridotta esemplarmente a due persone, introduce la differenziazione: differenza di cultura, di culto, di carattere …
Ebbene cosa succede a questi due fratelli? Se in Adamo ed Eva il peccato era visto nel rapporto dell’uomo con se stesso, come rifiuto della propria creaturalità, come sogno di onnipotenza, qui è colto nel suo versante sociale, nel rapporto dell’uomo di fronte al fratello in quanto altro, vicino e lontano, simile e diverso. La non accettazione della diversità dell’altro porta alla sua soppressione.
L’omicidio – espresso in poche parole, neppure un versetto – nasce dall’uomo che non vede l’altro come fratello, ma come nemico, antagonista. Notate come anche in questa pagina, come già in Genesi 3, la posizione centrale sia occupata dalla domanda di Dio: dov’è Abele tuo fratello?
Caino rifiuta di avere un fratello e di essere fratello e rispondendo negativamente alla domanda dell’Eterno cancella il fratello dalla realtà della sua mente (sono forse il custode di mio fratello?).
Ma così facendo Caino, cancellando Abele, cancella anche se stesso, cancella il suo essere fratello e questo non rimane senza conseguenze, perché se è vero che
Abele, nel racconto non parla mai, però una volta ucciso, fa sentire la sua voce: la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. La terra impregnata del sangue del giusto grida verso Dio.
Questo per dire a noi che se anche non vogliamo ascoltare la voce del sangue di tanti nostri fratelli e sorelle che grida dalla terra ormai profanata, non possiamo non ascoltare la domanda di Dio che, come scriveva Quasimodo, arriva fin dentro la nostra giornata: dov’è Abele tuo fratello?
La domanda di Dio e la voce del sangue del fratello che grida dal suolo risuonano ancora nei nostri condomini, nelle nostre periferie, nei Centri di prima accoglienza, nelle prigioni, negli ospedali, nelle baraccopoli delle città del mondo, risuona diretta e inequivocabile laddove la fraternità umana è uccisa dall’interesse economico, dall’odio, dall’ingiustizia e dalla violenza.
Non voglio sollecitare il nostro senso di colpa, perché tutti noi, bene o male, chi più e chi meno, ci troviamo inadeguati, ci rendiamo conto delle mancanze verso il prossimo … Se siamo qui è perché alla domanda di Dio risponde non il nostro senso di colpa, come raccontava uno scrittore del secolo scorso (J.L. Borges) che Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano,perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima». «Ora so che mi hai perdonato davvero, – disse Caino – perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare». Abele disse lentamente: «È così. Finché dura il rimorso dura la colpa».
Alla domanda dell’Eterno risponde Gesù: non è il senso di colpa che ci restituisce alla fraternità umana, ma l’etica delle Beatitudini.
Nei pochi versetti del vangelo di oggi che sono un piccolo estratto del Discorso della Montagna, Gesù propone al discepolo un’operazione spirituale importante per un’etica della fraternità che non si accontenti per così dire, di abolire la pena di morte, perché ogni omicidio è di per se un fratricidio.
Si tratta di entrare nel cuore, proprio lì dove si accovaccia insidioso il peccato, per togliere le radici profonde e non aspettare che ne venga fuori l’omicidio.
Perché se tu non coltivi i sentimenti di bontà e di benevolenza; se tu accetti in qualche modo di uccidere il fratello con una parola, un sentimento, con l’accettazione di una distanza da lui, alla fin fine è per te come se già fosse morto. L’hai già ucciso.
Se tu non curi il tuo cuore, se non sradichi dal tuo cuore i sentimenti di cattiveria e non togli dalla tua bocca le parole offensive, in qualche modo ti sei messo già sulla strada dell’omicidio, anche se per la paura della prigione o per non sentire la voce del sangue, non ucciderai il tuo fratello, ma come potrai rivolgerti a Dio dicendo: Padre nostro?
Coltiviamo dunque i sentimenti profondi del cuore, estirpiamo i pensieri cattivi, i desideri cattivi, le parole cattive perché siamo figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi.
[1] Qayin deriva dal verbo qanah che vuol dire “acquisire” ed anche “generare”. Di Abele non si spiega il significato etimologico, anche perché più che un nome proprio è un nome comune, che ha pertanto una valenza simbolica. In ebraico hebel significa “respiro, alito” e ritorna spesso nel libro del Qoelet: «Tutto è hebel», tutta la realtà è inconsistente, è un soffio, ha la consistenza di un alito.