DOMENICA DI PASQUA - nel giorno - Gv 20, 11-18


audio 17 apr 2022

Hanno molto da dirci ancora oggi le donne di Pasqua.

All’alba di Pasqua, incontriamo sempre loro, le stesse che sono state capaci di stare sotto la croce di Gesù. Una presenza che ha accompagnato il Crocifisso in quelle ore di passione: volevano essere di consolazione per non lasciare Gesù morire da solo.

Gesù dall’alto del patibolo non ha visto solamente i soldati che si spartivano le sue poche cose, del tutto indifferenti al dolore e allo strazio di un morire così. Gesù ha potuto almeno volgere lo sguardo su qualcuno che lo amava e che lo ha amato fino alla fine, che ha resistito fino in fondo.

Non possiamo dire lo stesso dei discepoli: sembravano spariti, dispersi.

Pilato aveva risolto i suoi problemi di ordine pubblico, i capi dei sacerdoti e i capi anziani avevano ottenuto quello che volevano. Il popolo non è sceso in piazza per protestare per un innocente, anzi anche senza social, la comunicazione aveva opportunamente manipolato la gente di Gerusalemme che subito era passata dall’osanna al crocifiggilo!

Insomma il “problema Gesù” era stato liquidato con un processo farsa, con prove manipolate, senza un procedimento secondo giustizia e soprattutto concluso la violenza di sempre. La stessa che vediamo ancora oggi.

Cosa vede oggi Gesù sotto la croce? Donne e soldati. Soldati che esercitano il potere e donne che mettono al sicuro i figli, che curano i feriti, che si sacrificano, che sanno resistere sotto il peso del dolore. Donne che sanno amare.

Sono loro che insieme a Gesù tessono quel filo rosso che lega questi giorni santi di Pasqua. La sequenza temporale della cena del giovedì, della crocifissione del venerdì e del sepolcro vuoto della domenica ora sta insieme in un unico grande mistero di vita e il filo rosso è Gesù, Gesù che alle donne ha affidato il segreto del suo morire per amore e del suo risorgere come amore.

Sono loro ad essere capaci di amarlo di un amore così personale da resistere sotto la croce fino a correre senza indugio al sepolcro al mattino presto per prendersi cura del suo corpo.

Certo dobbiamo rendere giustizia anche ai discepoli, almeno due ne escono abbastanza bene da tutta questa vicenda: Giovanni il discepolo amato che era lì sotto la croce. Giuseppe d’Arimatea ha messo a disposizione, di tasca sua, un sepolcro nuovo di zecca per deporvi il corpo del Signore… ma sono loro le donne capaci di un amore per Cristo che gli altri non danno a vedere.

Questa cosa deve farci riflettere sia a livello personale che a livello ecclesiale. Anzitutto a livello personale perché queste donne che resistono sotto la croce e che corrono al sepolcro ci parlano di un amore per Cristo che non è un’infatuazione che lascia il tempo che trova, non è semplicemente questione di emotività… ci provocano a considerare se noi saremo stati capaci di stare lì a fare compagnia a un amico che stava morendo, se noi avremmo resistito al suo dolore. Ci saremmo alzati la mattina presto per prenderci cura del suo corpo?

Noi che discutiamo di teologia e fabbrichiamo dogmi, noi che organizziamo le strutture ecclesiali e pianifichiamo i progetti pastorali… ma davvero siamo capaci di amare Cristo, così come lo hanno amato Maria sua madre, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo, Giovanna, Salome (Mc 16,1) e le altre che erano con loro (Lc 24, 10s)?

Mi chiedo spesso perché la nostra professione di fede, il Credo, non debba contenere anche il verbo ‘amare’: non c’è traccia in quel testo che riflette questioni secolari e importanti, di ciò che davvero conta.

Il Signore Risorto incontra per prime le donne e non gli apostoli, anzi Maria Maddalena verrà chiamata proprio per questo ‘apostola degli apostoli’, infatti il Signore affida a lei il compito di portare la buona notizia di aver incontrato Cristo vivente: Va’ dai miei fratelli! Così le dice Gesù.

Qualche interrogativo nasce allora anche per il nostro modo di essere chiesa oggi dopo due millenni. La chiesa nasce come una rete famigliare, amicale, una reale fraternità di uomini e donne, capace di fermentare col vangelo gli imperi di ogni latitudine. Certo con una storia dolorosa e gioiosa al tempo stesso.

Ora noi che veniamo da una cristianità occidentale ormai crepuscolare, con un passato di tutto rispetto che ha generato tradizioni culturali importanti, ci dobbiamo rendere conto di aver prodotto valori che stanno più sopra la testa dei popoli e delle culture che non nel corpo degli uomini e delle donne reali. Abbiamo dato il fiato a divisioni, abbiamo alimentato guerre tra cristiani, viviamo oggi un ecumenismo formale platealmente in ritardo sulla comunione reale…

Le donne del vangelo ci stanno a dire che sono due le cose che contano, e non sono le nostre strutture e i numeri, ma anzitutto l’amore per Cristo, l’essere fedeli al Signore, anche quando giace morto sotto i colpi dell’accanimento politico e del dispotismo religioso.

E la seconda cosa è che le donne non rimangono inerti nel passaggio difficile della pasqua di morte e di resurrezione, ma rimangono fedeli all’amore del Signore e corrono ad annunciarlo vivente. E questo ci dice che la vocazione della chiesa, di tutti i battezzati, uomini e donne, è evangelizzare. Il problema non è quanti siamo, se pochi o tanti, ma se siamo davvero convinti di portare il vangelo nella vita e nella storia del mondo.

Papa Francesco nel recente viaggio a Malta ha detto che la Chiesa del futuro sarà una chiesa che diventerà più piccola, che perderà molti privilegi, sarà più umile e autentica e troverà energia per l’essenziale. Sarà una chiesa più spirituale, più povera e meno politica: una chiesa dei piccoli (3 aprile con i gesuiti maltesi).

Una chiesa che ama il Signore e annuncia il Vangelo di Pasqua, annuncia il mistero di vita non come teoria e astrazione, ma per come lo è stato per Gesù, un dono.