III DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 9, 18-22


Io vorrei capire insieme con voi il perché di queste parole di Gesù, perché il Cristo dica di se stesso: il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato e ucciso…! Perché?

Perché uno che non ha mai alzato la mano contro una formica, non ha mai fatto un torto anche quando è stato ingiustamente accusato, anzi si è messo a dialogare con coloro con cui nessuno parlava, si è chinato sui lebbrosi, ha dato spazio alle donne, ha accolto i bambini… insomma perché un uomo così arrivi a sapere già in partenza che il suo destino è segnato. Perché?

Me lo chiedo anche perché avendo scelto di stare dietro a lui, cercando di vivere il Vangelo, ci rendiamo conto ogni giorno che le cose che possono sembrare più semplici, quando basterebbe un poco di attenzione, una giusta cura nel compiere il proprio dovere, il proprio lavoro, per non parlare del rispetto dell’altro, dell’accoglienza… insomma, perseguire il bene non va bene!?

Ora non parliamo degli altri, di coloro che sono fuori, di chi dice di non credere… Gesù interpella anzitutto noi: Ma voi chi dite che io sia?

Gesù è l’oggetto delle nostre preghiere, Gesù è ben definito nel testo della professione di fede che diciamo ogni domenica… Noi sappiamo chi è Gesù. Sono anni che ne parliamo, sono anni che lo preghiamo!

Infatti noi siamo abituati a una preghiera che emerge dalle nostre innumerevoli domande, un’invocazione che sale dai nostri desideri… Il vangelo di oggi, con lo stile scarno e essenziale, proponendoci la centralità del Cristo, ci invita a cambiare paradigma. Non è la domanda a nascere dalla preghiera, piuttosto quando sei in preghiera emergono i veri interrogativi, non quelli che galleggiano sulla superficie della vita e che tante volte si riducono a capricci, banalità, sciocchezze.

Dalla preghiera nascono le domande vere, autentiche: un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Dalla sua preghiera affiorano due domande: chi dice la gente che io sia?  E poi la seconda: Ma voi chi dite che io sia?

Proprio perché nascono dalla preghiera non sono un esercizio di retorica, non sono nemmeno domande accademiche che vogliono definire una verità… è come se Gesù chiedesse ai suoi amici di non rinchiuderlo in formule, in definizioni, ma di custodire la domanda sempre aperta, di non chiuderla mai, mai. La sua appare più come una confidenza che va tenuta con un certo pudore.

Quando Pietro, d’impeto, risponde di riconoscere in lui il Messia di Dio, il Cristo di Dio, Gesù gli chiude subito la bocca e con lui a tutti gli altri, ma non perché abbia detto qualcosa di sbagliato. Non è questa la questione, siamo tutti capaci di parole e siamo bravi a neutralizzare con grande superficialità le cose dentro le nostre classificazioni, le nostre etichette e siccome c’erano tanti giudaismi in quegli anni, c’erano tanti messianismi, vai a capire cosa poteva intendere Pietro: un messia zelota, vale a dire un rivoluzionario? Un messia sacerdotale? Un messia maestro di sapienza? Cos’altro?

Teniamo poi conto che esisteva una forte tensione tra il giudaismo di Gerusalemme e il giudaismo della Galilea. In Galilea c’erano dei maestri, che assomigliavano a Gesù molto più di quanto assomigliassero ai maestri di Gerusalemme. I maestri, che poi si chiameranno rabbi, di Gerusalemme si ritenevano superiori e avevano un atteggiamento di estrema diffidenza verso i maestri della Galilea, i quali erano molto simili a Gesù, facevano molte cose come Gesù: parlavano alle masse, compivano dei segni…

L’élite di Gerusalemme si identificava soprattutto in quel movimento che andava per la maggiore allora e che era il fariseismo. Ma, come recita il Talmud c’erano anche diversi tipi di farisei.

C’era il fariseo che faceva le cose per opportunismo e fanatismo.

C’era il fariseo che per mostrarsi umile camminava facendo dei passetti corti, ostentando umiltà.

C’era il fariseo che per non guardare le donne per strada, camminava sempre guardando in basso. Non vedeva i muri e finiva per sbattere la testa a tutti gli angoli.

C’era il fariseo che camminava curvo come il pestello nel mortaio, per ostentare devozione.

C’era il fariseo inquieto che cercava qualcuno che rispondesse alla sua ansia da scrupoloso: qual è il mio dovere, qual è la regola che devo fare?

C’era il fariseo che temeva Dio e faceva le cose per timor di Dio… così come c’era anche il fariseo che le faceva per amore.

C’è molta ironia, anzi autoironia, in queste sette caricature del Talmud e molte di esse ben si adattano anche a noi… Gesù ponendo la domanda costringe i suoi a dare voce ai loro pensieri, a non dare nulla per scontato, a non rinchiuderlo in una definizione, in un movimento, in un’etichetta.

Pietro e gli altri conoscono bene l’uomo che li ha chiamati, che li ha coinvolti. È un uomo la cui vita è piena e intensa, quando c’è da far festa, fa festa, quando c’è da piangere, piange. È un uomo in carne e ossa, vero.

Certo ci sono delle cose incomprensibili che sfuggono alla loro comprensione: non si è sposato, non ha messo su famiglia. E poi ha abbandonato il mestiere del padre e ora non lavora nemmeno, anzi proprio per questo lo hanno potuto incontrare da quando è diventato una specie di predicatore itinerante.

Se rimaniamo al dato evangelico è curioso che la gente dica di Gesù che sia un profeta: Giovanni il Battista, Elia, Geremia o qualcuno degli antichi profeti. Quando era andato a Nazaret ed era stato accolto con diffidenza, Gesù disse di se stesso: Nessuno è profeta in patria. Quindi questa è anche la sua autocomprensione e non rimane nell’ambito dell’insegnamento di tipo sapienziale, sacerdotale o rabbinico.

Ma oggi insiste su un altro nome, per noi in parte sconosciuto: Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato  –non dai pagani, dagli atei, dai non credenti, ma – dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

Gesù non si presenta come un sovrano, perché il re messia, l’unto del Signore poteva essere come un Davide redivivo… e Gesù sapeva fin troppo bene dove poteva condurre una cosa del genere, per questo preferisce presentarsi come Figlio dell’uomo.

Un termine  apocalittico del tardo giudaismo che vedeva nel Figlio dell’uomo una figura misteriosa e umana al tempo stesso, che sarebbe arrivata alla fine dei giorni per compiere la giustizia di Dio, per mettere le cose a posto, così il libro di Daniele.

Gesù però insiste nel dire che il Figlio dell’uomo dovrà soffrire molto, che era la convinzione dei profeti: sapevano che non erano mandati per comandare, per dirigere, per decidere… ma erano mandati perdenti in partenza.

E allora la domanda da cui siamo partiti diventa ancor più stringente: perché questa sofferenza causata tra l’altro proprio dalle massime autorità? Da coloro che hanno Dio sulla bocca dalla mattina alla sera e che nominalmente si danno da fare per Dio, ma che in realtà pensano solo a se stesse, alla loro conservazione, al loro infame autoritarismo?

Perché uno che porta in questo mondo un po’ di libertà, di bontà, di semplicità… uno che annuncia le Beatitudini per intenderci, deve urtare contro l’inimicizia, il rifiuto, anzi l’odio mortale? Perché?

È quello che succede ancora in mezzo a noi. Di fronte alle sciagure naturali, dinanzi al ritorno di malattie che non ci aspettavamo, di fronte alla gente che cerca pane e giustizia, di fronte alla violenza sulle donne, cosa sappiamo fare? Certo c’è chi si impegna e si dedica con generosità, ma in questi ultimi tempi si vanno moltiplicando reazioni di odio e di razzismo, di disimpegno e di chiusura.

Proprio rispetto al caso di malaria c’è stato un crescendo di commenti (sui social) che, oltre a dimostrare lo sfoggio di ignoranza, ha certificato l’ormai irrefrenabile bisogno di individuare mostri e untori basandosi su una linea di “logica razzista”.

Linea che si è rappresentata nel modo più truculento dopo il caso dello stupro di Rimini e che invece – ecco la spia ancor più rivelatrice – non si è lanciato nello stesso modo (anzi, tutt’altro) nel caso più recente di Firenze dove sono accusati due carabinieri.

Aveva ragione Umberto Eco quando disse che «i social media hanno offerto alcune buone novità ma, dall’altro lato, hanno dato diritto di parola agli imbecilli: prima parlavano solo al bar e subito venivano messi a tacere».

Sembra davvero che il livore, l’astio, la cattiveria siano giunti a livelli di espressione che ci devono preoccupare, anche perché appena uno accenna a una qualche via di dialogo, di apertura mentale, di confronto… viene subito etichettato come “buonista”. Termine che sta diventando molto più che un epiteto, è una posizione da cui dissociarsi il più in fretta possibile, ormai è un insulto.

Questa è la realtà: siamo consapevoli che cercare il bene comune, proporre vie di dialogo, avviare percorsi di perdono e di misericordia, usare il ragionamento e il pensiero, alzare la prospettiva miope ad orizzonti di futuro possibile… tutto questo non porta voti, né consensi.

Anzi, eliminare il buono per eccellenza, che era Gesù, ha portato il consenso delle masse. Ha permesso ai potenti di allora di consolidare il proprio potere.

E noi da che parte stiamo? In questo senso risuona anche per noi la domanda: che ne abbiamo fatto di Gesù? Cos’è diventato per noi? Dio e Signore? Redentore e salvatore?

Le formule che ripetiamo oggi sono spesso formule apprese in età infantile, accettate in maniera meccanica, ripetute e proclamate, forse vissute meno. Confessiamo Gesù per abitudine, per pietà o per disciplina… l’ortodossia delle nostre formule ci può infondere sicurezza.

Ma la domanda torna con tutta la sua carica ad inquietarci perché Gesù ci ribalta, ci rovescia come dei calzini nelle nostre finte sicurezze su di lui e su Dio, in tutte le nostre idee su di lui diffuse con tanta solennità.

Non esige una risposta teorica o dogmatica, non si accontenta di parole, ma cerca una risposta di vita: sei disposto a lavorare per il bene? Siete certi di voler continuare a portare avanti il messaggio delle Beatitudini… anche se non avrete successo? Anche se sarete incompresi se non addirittura perseguitati? Siete pronti a pagare di persona per il bene?

(Lc 9,18-22)