IV DOPO PENTECOSTE - Lc 17, 26-30.33


Credo che ascoltando la diagnosi della condizione dell’umanità e del mondo al tempo di Noè possiamo per lo meno sottolineare due cose: anzitutto non siamo più solamente dinnanzi a un peccato individuale e personale come abbiamo visto con Adamo, nella storia umana c’è anche un peccato sociale, strutturale, una condizione diffusa come recita il v.5: Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra… C’è una malvagità diffusa che induce perfino l’Eterno a pentirsi di aver fatto l’uomo.

In che cosa consista più precisamente questa malvagità diffusa è detto nei vv. 11-12: la terra era corrotta e piena di violenza, ogni uomo aveva pervertito la sua condotta. Ecco dunque le tre componenti della malvagità: corruzione, violenza, perversione che mi pare, ecco la seconda sottolineatura, corrisponda a una diagnosi che ben si adatta anche al nostro tempo.

La corruzione, ci viene detto, è un male endemico, sembrerebbe invincibile ai più diversi livelli di organizzazione sociale. Papa Francesco sta pensando di mettere in atto un segnale forte come la scomunica per i corrotti, alla stregua di un chirurgo che con il bisturi incide sull’ organo malato per cercare di salvarlo.

La violenza poi, secondo elemento, è sotto gli occhi di tutti noi: c’è la violenza dei terroristi, la violenza di genere, la violenza razzista che va montando giorno dopo giorno, la violenza di Stato, fino alla violenza verbale nella quale noi stessi inciampiamo e che registriamo sempre più frequentemente sulle nostre strade, nei nostri condominii.

E poi la perversione. Letteralmente perversione significa stravolgimento, lo stravolgimento di un processo psichico, di un comportamento sociale, di un sentimento o di una tendenza istintiva, ad esempio del gusto, del senso estetico o dell’istinto sessuale che ad esempio diventa pedofilia, esibizionismo, feticismo…

E allora dobbiamo aspettarci un diluvio? O dobbiamo attenderci un fuoco che distrugga le nostre città, così come è sceso su Sodoma, come ricorda Gesù?

Nella storia dell’umanità e in molte le culture, il mito di una rinascita dopo un periodo di decadenza, che sia una rinascita universale morale e civile viene affidato a una sorta di bagno purificatore. Infatti esistono racconti simili non solo nell’Oriente antico, specie in Mesopotamia, ma in tutti i continenti: nelle Americhe, in Africa, in India, in Cina e persino presso gli Eschimesi.

L’uomo religioso interpreta un diluvio, un’eruzione vulcanica, un fenomeno naturale anomalo come fosse una punizione divina… in realtà questi fenomeni non sono altro che le conseguenze che derivano dalla corruzione, dal dilagare della violenza e della perversione. Una civiltà che vuole dirsi umana e che vive di corruzione, di violenza e di perversione non va lontano, non ha futuro.

Ecco è questo che ci interessa: se possiamo essere tutti e facilmente d’accordo sulla diagnosi, dobbiamo chiederci però se abbiamo uno sguardo sul futuro o siamo appiattiti sul presente, sull’oggi. Se abbiamo un orizzonte davanti alle nostre vite o se invece ci avvitiamo sul presente?

È questa la domanda che Gesù ci pone oggi e che ci deve far riflettere quando afferma al termine del brano di oggi: chi cercherà di salvare la propria vita la perderà (la rovinerà); ma chi la perderà, la manterrà viva.

Dopo aver fatto un parallelo tra la sua generazione e quella di Noè, Gesù non minaccia un diluvio, non annuncia un castigo dall’alto, ma rimanda alla responsabilità di ciascuno.

Non c’è più un’arca sulla quale sgomitare per salire e salvarsi la pelle, ma un principio di responsabilità cui ciascuno uomo, ciascuna donna viene rimandato.

Ed è dentro questo principio che c’è la promessa di Gesù. Vuoi vivere? Vuoi una vita viva? Non pensare solo a te stesso. Se pensi solo a te, al tuo gruppo, al tuo clan, alla tua tribù, alla tua parentela… non hai futuro.

Perché questo è quello che istintivamente facciamo. Nei momenti difficili, complessi, quando non c’è lavoro per tutti, quando ci si sente insicuri nella società che abitiamo… quando si avverte come minacciosa la presenza dell’altro, del forestiero, quando non c’è la garanzia del diritto… oggi come ieri, cosa fa l’essere umano d’istinto? Si ripiega su di sé, noi stessi ci mettiamo sulla difensiva, la demagogia proietta tutto il male possibile su un capro espiatorio… Guai invece agire contro i corrotti, si fomenta piuttosto la violenza «contro» e la perversione diventa uno stile di vita!

Anziché preservare la convivenza civile dalla corruzione facciamo finta di non vedere o peggio ancora ci adattiamo a questo sistema… e qui non ci sono né cattolici, né atei, né nativi, né migranti. È una categoria trasversale a tutte le appartenenze, ed è più forte di qualsiasi ideologia.

Se noi siamo incapaci di incidere sulla malvagità, guardiamo allora cosa fa l’Eterno. Non possiamo leggere la narrazione di Noè e della sua generazione con il registro della colpa e della punizione, perchè in realtà è un altro il registro dominante in questo racconto di morte e di distruzione, è quello per cui al v. 18 Dio dice a Noè: Con te stabilisco la mia alleanza.

Il Signore di fronte al dilagare del male non offre facili soluzioni, non cerca capri espiatori, ma inventa Noè (Noach, dal verbo nacham, consolare), Noè “consolazione del Signore”.

E questo ci sorprende perché difronte alla violenza e alla corruzione Dio non fa cose grandi, rivoluzioni o riforme, ma inventa Noè chiedendogli di costruire un’arca di legno in piena campagna ed esponendolo al ridicolo.  Noè che in tutto il racconto non dice nulla e rimane in silenzio, è la figura del giusto che si mantiene fedele e obbediente, tace e agisce, fiducioso nella promessa di alleanza.

Non è facile mettersi a costruire una nave in aperta campagna, quando la gente intorno ti deride e ti prende in giro: «Che stai facendo? Vuoi andare in barca sui monti?». Noè nonostante tutti continua a fidarsi della promessa di Dio.

Perché in un oceano di dilagante corruzione, violenza e perversione, Dio fa’ una promessa, cerca un’alleanza, guarda avanti, verso il futuro.

Dio si sporge, si compromette, è un po’ come se dicesse: sull’arca vengo anch’io con voi! Non mi rassegno al male, al dilagare della malvagità.

Ma io, tu, noi siamo disposti a rischiare con un Dio così? Siamo disposti a non pensare solo a noi stessi, al nostro microcosmo, e ad alzare lo sguardo sulla promessa di Dio?

«Anche la nostra vita è uno sporgersi, scrive C. M. Martini[1], è un rischiare, un andare oltre il limite. Chi vuole restare sempre nel limite sicuro non esce mai da se stesso, non dà fiducia a un altro, e quindi non si sposa, non fa una scelta, è come il chicco di frumento che non muore e rimane solo».

Dio rischia per noi, per insegnarci a rischiare per lui. Come dice Gesù: chi non perde la propria vita non la troverà. Lui per primo non ha cercato di salvare la propria vita, ma l’ha perduta, l’ha lett. mandata in rovina. Questa è la via, la strada di Gesù.

C’è un altro legno, che non è l’arca, ma la croce segno di un amore che si staglia appunto tra cielo e terra per dire che l’umanità ha futuro se impariamo il dono, non se cerchiamo noi stessi, il nostro io, il nostro emergere, il nostro istinto, il nostro bisogno, ma se ci doniamo.

Questa è l’unica violenza ammessa, non quella contro l’altro, contro la natura, contro gli animali, ma quella contro la tirannia dell’io: quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri, dice Paolo facendo eco alle parole di Gesù: Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà; ma chi la perderà la manterrà viva.

Non è una via di mortificazione e di tristezza, come quelle spiritualità cupe e rassegnate che hanno contraddistinto tanta storia del cristianesimo, anzi come scrive Paolo in questo mirabile passaggio della sofferta lettera alle comunità cristiane della Galazia (nell’attuale Turchia): certo ci sono un sacco di problemi e di cattiverie e fa un elenco di ben quattordici comportamenti negativi, ma quelli che sono di Cristo, notate questa bellissima definizione dei discepoli (v.26), quelli che sono di Cristo sono capaci di amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé… nove atteggiamenti che considera come un unico frutto dello Spirito.

Nei marosi della nostra società, abbiamo la responsabilità non di pensare a noi stessi, ma di contrastare la violenza, la corruzione e la perversione con lo slancio di Gesù, quale di questi doni ciascuno di noi può cercare di testimoniare in questa stagione della sua vita?

(Gen 6, 1-22; Gal 5, 16-25; Lc 17, 26-30.33)

[1] C.M. Martini, I verbi di Dio, ETS