VIII DOPO PENTECOSTE - Mt 22, 15-22


(1Sam 8, 1-22; 1Tm 2, 1-8; Mt 22, 15-22)

Penso sia capitato anche a noi talvolta di ripetere le parole di Gesù che abbiamo appena ascoltato: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», parole diventate ormai proverbiali per dire la separazione e l’autonomia necessaria tra la politica, il potere civile e il potere religioso, il magistero della chiesa. È un tema che, anche nel nostro Paese, permane di grande attualità e alimenta infiniti dibattiti sulla laicità dello stato e la missione della Chiesa, a partire dalla famosa espressione che Cavour disse al parlamento il 27 marzo 1861: «libera chiesa in libero stato».

Sarebbe già importante avere una sana separazione tra il potere politico/economico e il potere spirituale/religioso, ognuno con le proprie competenze, prerogative e i propri poteri. Ma per dire questo non era necessario Gesù. Il Signore prende le distanze da qualsiasi riduzione e interpretazione strumentale, che sono quasi un addomesticamento del Vangelo per indicare una prospettiva che va oltre la necessaria distinzione dei ruoli e dei poteri.

Lo dico ripensando a un fatto che abbiamo vissuto in questa settimana seguendo Papa Francesco nella sua storica visita a Lampedusa – tra l’altro il testo è disponibile per la vostra meditazione – con le reazioni che ne sono seguite. Infatti il papa ha richiamato il suo dovere di risvegliare le nostre coscienze perché «La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza».

Penso che la visita di papa Francesco sia stata un’iniziativa dirompente anzitutto per la chiesa italiana che a suo tempo di fronte alla promulgazione di leggi inique e ingiuste non ha avuto lo stesso coraggio e la stessa forza di papa Francesco nel risvegliare le coscienze.

Ma è stata un’iniziativa dirompente anche per chi intende la legittima autonomia dello Stato e della Chiesa, semplicemente come una spartizione di poteri. Quando i politici di fronte alle parole di papa Francesco reagiscono dicendo che un conto è predicare e un conto è governare, danno voce alla stessa ambiguità che ritroviamo negli interlocutori di Gesù.

Costoro vanno dal Signore e con fare adulatorio gli dicono ben quattro motivi di elogio: Sappiamo che sei veritiero, sappiamo che insegni la via di Dio, sappiamo che non hai soggezione di nessuno e che non guardi in faccia a nessuno… Così come molti ancora oggi tessono gli elogi della Chiesa quando questa parla dell’embrione, del fine vita… ma poi quando si toccano alcuni nervi scoperti come appunto l’immigrazione, il lavoro… allora non va bene, in quel caso la chiesa deve stare zitta. In questo senso il giudizio di Gesù è attualissimo perché definisce chi ragiona in questo modo, con una sola parola: ipocriti! Impostori, bolle di sapone, appunto.

Ed è curioso perlomeno sapere che costoro sono farisei e erodiani. Due partiti che avevano posizioni politiche diametralmente opposte. I farisei non tolleravano l’occupazione romana, anche se non arrivavano ad azioni di guerriglia o come gli zeloti ad organizzare attentati. Gli erodiani invece stavano, come dice il nome, dalla parte di Erode, un re fantoccio messo lì appunto dai romani e quindi erano sostenitori di Cesare.

Ecco la loro domanda: «È lecito pagare il tributo a Cesare?» che non è da intendersi: «Si devono pagare le tasse?», perché il tributo in questione non è il fisco romano sul territorio occupato, ma era il census ovvero la moneta che ogni cittadino dai 12 ai 65 anni doveva versare a Cesare, riconoscendolo come sovrano assoluto, padrone e signore, infatti sulla moneta c’era l’immagine di Tiberio e l’iscrizione latina “Tiberio Cesare figlio del divino Augusto”.

Gesù è posto di fronte a un dilemma così ben congegnato che sembrerebbe impossibile sfuggirvi: o risponde che è lecito, e quindi va contro la teologia biblica (prima lettura) che non poteva accettare un re con prerogative divine [1] ; o risponde che non è lecito e quindi incorre nelle sanzioni del dominatore romano. Nel primo caso si tratta di una condanna teologica, nel secondo di una condanna politica.

Apparentemente Gesù è in un vicolo cieco, è messo contro il muro. O almeno questa è l’intenzione dei suoi accusatori.

Ed è proprio a questo punto che il Signore compie un’operazione che li lascia a bocca aperta e che li costringe ad andarsene. Se la moneta riporta l’iscrizione e l’immagine di Cesare, dice Gesù, la moneta va restituita a Cesare. Ma non date a Cesare quello che è di Dio, e l’uomo che è immagine di Dio non può dare il suo cuore a Cesare. Ci sono dei Cesari che non si accontentano della moneta, esigono il cuore: non date a Cesare quello che non è di Cesare, cioè il cuore. Date a Dio quello che è di Dio. E il tuo cuore è da ridonare all’Eterno.

Qualcuno potrebbe dire: «Ma non abbiamo niente di meglio del nostro cuore da dare al Signore? Guarda che il nostro cuore non è un grande regalo!». È vero, il mio cuore, come il cuore di ciascuno di noi, non è un grande regalo e forse cercando bene nella nostra vita, potremmo trovare qualcosa di meglio, qualche opera buona, qualche decisione coraggiosa, qualche comportamento generoso. Sì, forse troveremmo qualcosa di meglio del nostro cuore da offrire a Dio, ma non sarebbe così «centrale». È questo ciò che conta: che Dio diventi centrale nella nostra vita, perché, come dice Gesù, «Dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21).

E se Dio è il Signore, pregheremo anche, come suggerisce Paolo, per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita in pace, ma saremo anche consapevoli, come dice Pietro, che «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29). Il restituire a Dio quello che è di Dio non è un bilanciamento necessario del primato di Cesare, non è una specie di armonico contrappeso, ma è il riferimento critico essenziale a cui i discepoli del Signore non devono rinunciare per nessun motivo, pena lo svuotamento del Vangelo della sua profezia.

La nostra urgenza oggi, la necessità come Chiesa non sarà quella di bilanciare il potere civile, di promuovere una politica cattolica o addirittura un partito cattolico… ma dobbiamo avere la stessa cura di papa Bergoglio di rimettere al suo posto quel Vangelo che per troppo tempo è stato sostituito da altre parole e da tanti documenti… di scrostare e ripulire quel cristianesimo addomesticato dallo spirito mondano che ha precipitato molti e la Chiesa stessa dentro a scandalosi compromessi di potere, di denaro, di peccato. E di denunciare con forza tutta la vanitas vanitatum che ha alitato così tanto fra i cattolici al posto dello Spirito.

Lo spirito mondano alimentato dal proprio interesse egoistico non è altro che «una bolla di sapone»: fuori bellissima, leggera e lucente. Dentro, il vuoto totale.

I mass media non perdono occasione di sottolineare come il cambiamento più grande che papa Francesco sta portando nella Chiesa sia nello stile e nelle strutture del Vaticano, ma per quanto importanti siano, queste rimangono sempre relative rispetto all’essenziale. A me sembra piuttosto che stia restituendo a Dio quello che è di Dio, raddrizzando, per così dire, la barca di Pietro e rimettendo la vela a quelle parole evangeliche che una troppo prudente navigazione nei mari burrascosi del mondo contemporaneo aveva fatto cacciare nella stiva.

Anche noi come Chiesa dobbiamo tornare a dare il nostro cuore al Signore e non al Cesare di turno. Solo così possiamo ritrovare la bellezza dell’essere profezia, cioè la capacità di infrangere le bolle di sapone che ci siamo costruiti. Più che moltiplicare organismi, riunioni, documenti, funzioni e ruoli, si cercano profeti. Profeti che non si trovano generalmente tra i sapienti, gli intellettuali, né tra i detentori del potere o della ricchezza, ma persone la cui vita è nascosta agli occhi del mondo, la cui voce si fa sentire raramente. Persone capaci di resistere alle passioni popolari come ai capricci dei grandi, che non dicono agli uomini ciò che desiderano sentirsi dire, ma sono capaci di una coscienza libera e fedele, trasparenza di Dio e evidenza di Vangelo.

Se è davvero questa la vela nuova che la barca di Pietro ha issato, non ce n’è più per nessuno: bisogna cambiare rotta.

 

[1] Dai libri di Samuele sappiamo che alla morte di Giosuè il governo delle dodici tribù attraversò un periodo burrascoso. Si tentò un minimo di organizzazione con l’istituzione della figura dei Giudici, ma la cosa naufragò ben presto perché se queste figure potevano in qualche modo risolvere le questioni interne come dirimere i conflitti di proprietà, di giustizia… tuttavia nel confronto con gli altri popoli nelle infinite guerre e battaglie per la terra e i suoi confini, il popolo di Israele governato da diverse figure non era in grado di organizzarsi adeguatamente.

La domanda di un’organizzazione e di un’istituzione militare unitaria si accompagnava a quella di un’unificazione politica, amministrativa ed economica. Ma poteva Israele darsi un re come tutti gli altri popoli, lui che aveva solo il Signore come proprio sovrano? Ecco il dilemma che i capi tribù pongono appunto all’anziano Samuele, ultimo dei giudici: Stabilisci per noi un re come avviene in tutti i popoli.

Samuele in un primo tempo è scandalizzato dalla richiesta. Eleggere un uomo come re gli appare equivalente al rigetto del Signore. Come sarà possibile che il popolo di cui il Signore è il re glorioso, come abbiamo pregato con il salmo 88, possa essere soggetto a un re come per gli altri popoli?

Sappiamo poi che Israele si darà un re come Saul, della tribù di Beniamino, che governerà, ma non come avviene negli altri popoli, bensì nel nome di Dio, obbedendo alle sue volontà. Diremmo oggi una vera e propria teocrazia, nella quale la legge dello stato coincide con la Torah del Sinai e il compito del re sarà di essere una specie di sacramento del Signore in mezzo al suo popolo, che ne garantisca la fedeltà all’alleanza.