III DOPO PENTECOSTE - Gv 3, 16-21


audio 18 giu 2023

Due cose mi sollecita la parola di Dio che abbiamo ascoltato, una più propriamente di metodo e una seconda di contenuto.

Dobbiamo anzitutto collocare i pochi versetti del cap.3 di Giovanni nel contesto più ampio del colloquio notturno avvenuto a Gerusalemme tra Nicodemo e Gesù: un incontro fortemente voluto e cercato da uno dei capi farisei, perché non si accontentava del sentito dire sul maestro di Nazareth, perché non gli bastava essere un fariseo protetto dall’appartenenza al suo gruppo e dal potere che gli veniva riconosciuto.

Aveva bisogno di parlargli, di dialogare con lui. Ecco il metodo: dialogare. Per Gesù è un’arte che il vangelo di Giovanni mette in evidenza in tutti gli incontri dalla Samaritana a Pilato… il metodo del dialogo, è più che un esercizio retorico, è un’arte che rispetta l’interlocutore senza umiliarlo, senza rinunciare alla chiarezza e alla verità. È un’arte che ha i suoi tempi, la sua gradualità.

Il dialogo di quella notte tra due personaggi improbabili, tra due opposti, perché i capi di farisei saranno coloro che insieme ai sacerdoti decideranno la morte di Gesù, non è stato appunto come si fa oggi un confronto in cui uno insulta l’altro senza mai argomentare, disprezzando l’altro con titoli e sentenze… è stata una notte trascorsa a ragionare, a confrontarsi, a discutere. A dialogare.

Il dialogo per essere generativo ha bisogno di un presupposto che forse oggi manca tanto: l’essere sinceri con se stessi, l’essere veri e non voler dimostrare quello che non si è, l’essere veri senza nascondersi dietro il gruppo, dietro l’appartenenza a un partito o robe di questo genere, l’essere veri senza dover etichettare le persone.

Se Nicodemo non avesse avuto questo atteggiamento interiore –come di fatto non l’hanno avuto i suoi colleghi -, non avrebbe cercato di incontrare personalmente Gesù. Certo lo ha cercato di notte, forse per non farsi vedere, forse per non dover rendere conto di quello che stava facendo, ma è stato capace di dialogare con Gesù perché era sincero con se stesso.

Ma anche Gesù non ha secondi fini nella sua predisposizione al dialogo, non vuole ottenere che Nicodemo divenga suo discepolo… lo troviamo sotto la croce (19,39) insieme a Giuseppe d’Arimatea, per togliere il corpo di Gesù dalla croce, ma niente più.

Il dialogo è generativo e vero se è libero da qualsiasi obiettivo che non sia quello del rispetto dell’altro, pur non condividendone le idee, ma anche senza accondiscenderlo. Gesù avrebbe potuto benissimo dire: io so cosa devi fare, so qual è il tuo bene, fa’ così e così… il dialogo rispetta l’altro e i tempi dell’altro.

E poi c’è una seconda cosa e sono le parole di Gesù, il messaggio che Gesù trasmette a Nicodemo, ed è coraggioso nel dire che dietro di lui c’è Dio, che tutto quello che Gesù è e fa, è in realtà iniziativa di Dio. Gesù non viene nel mondo a farsi una passeggiata, ma viene per rivelare Dio e il suo amore: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio… perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. La buona notizia, il Vangelo, è questa rivelazione, dice Gesù, che possiamo paragonare a quando un raggio di luce entra in una stanza e mette in evidenza tutto ciò che le tenebre nascondono.

In questo senso il Vangelo compie un giudizio, non è un giudizio escatologico, ma un giudizio sul presente, nel senso che nel suo venire come amore, Gesù mette in luce anche ciò che amore non è. Infatti chi fa il male odia la luce, perché le sue opere sono malvage.

Parrebbe una contraddizione che Gesù parli di giudizio mentre dà importanza al dialogo. Perché noi fraintendiamo il dialogo come qualcosa che mette tutti a posto, ognuno contento per la sua parte… ma non è così perché nel dialogo il Signore ha cercato di rimandare Nicodemo alla sua coscienza, lo ha accompagnato ad uscire dalla logica del gruppo, dell’appartenenza sociale per illuminare la sua coscienza col Vangelo.

Ora una coscienza illuminata dal Vangelo ha una responsabilità storica e deve compiere un giudizio sulle tenebre, deve riconoscerle, deve dare un nome alle opere malvage.

È malvagio lasciar morire 600 naufraghi, di cui 100 bambini, in mare. È malvagio che dei ventenni uccidano un bambino per marketing. È malvagio usare le donne come oggetto da possedere fino a ucciderle. E potrei continuare la lista, ma mi fermo qui, perché vorrei andare fino in fondo e domandarci: ma con quale coscienza oggi tolleriamo e lasciamo che accadano impunemente queste cose? La nostra coscienza si è narcotizzata, si è addormentata?

Probabilmente sì, perché viene costantemente narcotizzata dalla cultura della furbizia, del machismo, del guadagno facile a tutti i costi, dalla cultura dell’individualismo, così che appare perdente quando uno fa valere il rispetto, la legalità, la giustizia, il bene comune…

Permettetemi di ricordare le parole che ormai 20 anni fa il cardinal Martini pronunciò nel Comune di Milano: Finché la nostra società stimerà di più i “furbi”, che hanno successo, un’acqua limacciosa continuerà ad alimentare il mulino della illegalità e anche, sì, della microcriminalità diffusa. C’è anche un altro effetto, e forse più grave: quello che, togliendo stima sociale all’onestà, si indebolisca il senso civico, in specie dei giovani e dei più esposti alle strumentalizzazioni; e che si coltivi, anche nell’industre Milano, una classe di manovalanza criminosa, attratta dal facile guadagno.

Compito culturale urgente allora -che accomuna la città con le sue decisioni politiche e la Chiesa con la sua funzione formativa- è quello di innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero: “quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti” (s. Ambrogio).

Rivedendo magari, se del caso, i criteri con i quali la società -e magari anche la Chiesa- concedono favore e attenzione, criteri che troppo spesso premiano i potenti di questo mondo. (28 giugno 2002).

Un compito grave ci attende in quest’ora della storia: tenere viva la luce del Vangelo con dialogo e giudizio. Ma se oggi nemmeno i pastori hanno il coraggio di chiamare le tenebre col loro nome, c’è da chiedersi allora da quale luce si facciano illuminare? Non è più amore, è opportunismo. Non è più coscienza ma calcolo. Non è più Vangelo, ma dottrina.

Preghiamo, come suggerisce la liturgia ambrosiana, Signore dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze[1].

(Gv 3,16-21).

[1] Orazione per la festa dei Santi Timoteo e Tito.