XI DOPO PENTECOSTE - Mt 10, 16-20


Leggevo di un’indagine svoltasi di recente in Francia sulla condizione del cristianesimo dagli ultimi trent’anni ad oggi che giunge a una conclusione di questo genere: “La cultura cristiana resta un’isola nell’arcipelago, ma è in declino”. Non è una novità e non è nemmeno solo una questione della chiesa francese. Giusto per darvi un dato: solo il 56% delle persone interrogate conosce il “Padre Nostro” e il 46% l’“Ave Maria”. Per quanto riguarda l’Assunzione di Maria, gli interpellati conoscono la data del 15 agosto, ma molti non conoscono il significato della festa. Il distacco è invece più evidente quando si parla della Pentecoste: solo il 13% delle persone interrogate è capace di dire il suo significato, ma il 62% dei cattolici non si pronuncia.

Il segno della regressione della cultura cristiana lo si nota anche nel possesso di oggetti. Sono molti di meno i francesi che hanno al loro domicilio un crocifisso o un rosario, un’icona o un ramo dell’ulivo benedetto.

Situazione che ci fa pensare come le parole di Gesù nell’inviare i suoi come discepoli del Vangelo, non abbiano affatto perso la loro attualità e siano quanto mai necessarie e ci riguardano, ci interpellano: Vi mando come pecore in mezzo a lupi, dice il Signore, siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.

Curioso che Gesù ricorra a un linguaggio “bestiale” per dire come debbano comportarsi i testimoni del Vangelo: pecore e lupi, serpenti e colombe… immagini forti, che hanno in sé anche una certa dose di violenza, per dire come da sempre testimoniare il Vangelo sia un martirio. Molte volte, grazie al cielo, non si tratta di un martirio cruento, ma è pur sempre una testimonianza che ha un suo prezzo. La salvezza è grazia, è gratis, ma testimoniare il vangelo oggi come ieri è una “grazia a caro prezzo”, per dirla con Bonhoeffer.

Di fronte al declino della cultura cristiana, di fronte a un mondo di lupi, la tentazione dei discepoli di ieri e di oggi potrebbe essere, come ha fatto Elia, quella di chiudersi, di fare della chiesa, della parrocchia, del movimento una sorta di nicchia e di rifugio perché intorno il mondo è malvagio. La stessa tentazione l’ha vissuta anche Elia, di cui ci ha parlato la prima lettura, il quale inseguito e perseguitato si rifugia in una grotta e prega Dio perché non sa che pesci pigliare.

Che cosa fai qui Elia? Ed Elia come a dire: aspetto una tua rivelazione, un segno… e ancora Che cosa ci fa qui Elia? per due volte risuona nelle profondità della caverna la domanda che alla fine lo sospinge fuori dalla grotta, ma anche dalla gabbia mentale che si è costruito.

Di fronte alla débâcle, sarebbe molto più facile, come taluni ancora credono sia giusto fare, assumere i tratti del lupo per annunciare un dio di fuoco, un dio terremoto, un dio di paura… un dio che spaventa perché solo così l’uomo potrà venire ricondotto ai valori che sono dati per perduti. Sì, è comprensibile agire così se si vuol restaurare una civiltà cosiddetta cristiana, ma Gesù ci chiede di annunciare il Vangelo ed è un’altra cosa. Il Dio di Gesù, il Padre che lui ci fa conoscere nel Vangelo lo incontri in un’esperienza che ha dell’indicibile.

Lo racconta bene Elia: dopo il vento, dopo il terremoto, dopo il fuoco… il profeta avverte il sussurro di una brezza leggera. La trasposizione italiana rende solo una versione approssimativa dell’intraducibile qol demamah daqah, che potremmo tradurre: voce di silenzio sottile. Elia non descrive nulla di questo silenzio: dobbiamo fidarci di lui e dare senso a questa suggestiva sequenza di parole che si contraddicono: quale voce ha il silenzio?

Al profeta basta fare capolino dalla grotta per ascoltare, per vivere quel momento così come aveva fatto con il pane portatogli dai corvi a suo tempo sul monte. Non lo legge, perché il silenzio è illeggibile, non lo decifra, lo scandisce con quelle tre parole qol demamah daqah che nella frase sono senza sintassi, perché le lega qualcosa di più intimo e ben più intraducibile.

Elia si immerge nel silenzio. Rinunciamo come lui a capire: non resta che immergerci in quel silenzio, entrandovi come fece Elia. Per quanto possa sembrarci irrazionale e inconcepibile, rinunciare a capire è un modo per imparare ad aspettare il futuro. Quello che sta sempre un passo più lontano da dove ci si trova e non arriva mai, a meno di non attenderlo.

Il vento risuona all’imboccatura della caverna, della grotta in cui si è rinchiuso: Che cosa ci fai qui Elia? Non è una rivelazione, è un’interrogazione. Nemmeno Elia sa cosa ci fa lì: sa soltanto d’essere spinto da un’ansia, da una paura che rischia di fargli prendere decisioni sconnesse.

Mentre vive quel silenzio sulla sua pelle, si rende conto che stare a rimuginare su quello che è stato: hanno abbandonato, hanno tradito… come potremmo dire noi stando alle indagini sociologiche: siamo rimasti in pochi, anche di quei pochi c’è ancora una percentuale minima di chi davvero conosce le verità della fede… è una strada che non porta a nulla.

Non è quella la strada. Ascolta il silenzio.

Pensate che in Israele è stata fondata una compagnia di danza che si chiama proprio così Qol demamah: i ballerini sono sordi. Muovendosi sentono qualcosa di impercettibile che pure vibra e fa vibrare corde intime.

E così deve imparare Elia da Dio: non nel vento, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nel silenzio ascolta cosa il futuro.

Accogliamo anche noi la domanda che il Signore rivolge a Elia: Cosa ci fai qui? Cosa fai qui Giuseppe? Cosa ci fai qui Anna? Cosa fai qui tu… ecco che la domanda ci chiama a non fare della chiesa la caverna dove rifugiarci per paura del mondo.

Non cerchiamo rifugio nella grotta, non rimpiangiamo il passato, impariamo a stare nel mondo con il Vangelo nel cuore anche se circondati da lupi… e, poi aggiunge Gesù, state, abitate il vostro tempo con la prudenza del serpente e la semplicità della colomba.

La metafora “bestiale” dice due cose: anzitutto, essere prudenti come serpenti significa avere cura, attenzione, vigilanza e non superficialità e spavalderia. In questi tempi la paura è ovviamente demonizzata, ma la paura, quella stessa che induce il serpente a evitare un pericolo più grande di lui, è anche una emozione importante che ci fa comprendere la soglia del pericolo, ci segnala un rischio, ci fa stare all’erta per evitare situazioni in cui potremmo incontrare delle difficoltà e dei problemi in cui potremmo soccombere. Ecco la prudenza trasforma la paura che paralizzerebbe la vita, che ci impedirebbe di fare le cose di ogni giorno, in discernimento.

Prudenti e non ingenui, dunque, ma attenti a capire e a comprendere il rischio e il pericolo che incombe.

E poi semplici come colombe, perché è vero che in certi momenti è più facile lasciarsi prendere dalla tentazione di diventare lupi a nostra volta, farci aggressivi e violenti.

La semplicità, di cui la colomba è un esempio, è propria di chi nonostante le tribolazioni, le persecuzioni, le ingiustizie subite non perde la fiducia di essere caro al cuore di Dio.

Prudenti e semplici, o come dice una poetessa contemporanea: «Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati»[1].

Sì, di guerrieri indifesi ha bisogno il mondo.

(1Re 19,8-16.18; Mt 10,16-20)

[1] Chandra Livia Candiani, Fatti vivo p.128