FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA - Lc 2, 41-52


Normalmente ci accostiamo al vangelo per cercare le risposte alle nostre domande, alle nostre inquietudini… e oggi in particolare, celebrando la festa della santa Famiglia di Nazareth, chi non vorrebbe trovare nella parola di Dio e nella liturgia della chiesa una qualche risposta ai problemi della propria famiglia? Chi non vorrebbe ricevere un’ispirazione, un’illuminazione mentre porta a Gesù le proprie attese? Guarda Signore questo figlio, questa figlia cui voglio bene, non ci capiamo più, ha chiuso la comunicazione, non si fa più sentire… oppure le preoccupazioni di chi ha figli adolescenti bravi per carità, ma anche tanto fragili e imprevedibili!

Penso anche all’ansia dei figli per lo stato di salute dei propri genitori… Potremmo dire che tanti siamo qui e altrettante sono le domande che salgono al Signore per le nostre famiglie, per gli affetti più belli e più importanti, senza i quali non saremmo qui nemmeno noi.

Il vangelo però dice che se è legittimo portare al Signore le nostre domande, come succede a Maria che dà voce alla preoccupazione e all’angoscia sua e di Giuseppe domandando a Gesù: Perché ci hai fatto questo? Sì, perché non è che si è smarrito nel tempio! Gesù è rimasto deliberatamente a Gerusalemme, ha fatto una cosa grave nei confronti dei suoi genitori.

Però è anche vero che dobbiamo lasciarci raggiungere dalle domande che a sua volta Gesù rivolge a noi, così come risponde a sua madre con una domanda: Perché mi cercavate?

Un detto ebraico afferma che in principio Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo. Le domande sono la linfa della vita e della fede.

Dobbiamo aver fatto qualche bel danno se ancora oggi chi si pone una domanda sulla fede si sente in colpa, quasi fosse un peccato lasciare che gli interrogativi emergano dalla nostra coscienza … un po’ perché ci siamo posti sempre con un atteggiamento dogmatico dominante nel voler essere la risposta a tutto, un poco perché tutti noi siamo pigri e piuttosto che ascoltare domande che inquietano, preferiamo stare tranquilli e al sicuro con delle risposte bell’e pronte.

Quella che abbiamo ascoltato è la prima delle domande che Gesù pone nei Vangeli. Solo nel vangelo di Luca ne ho contate almeno 70! E la prima domanda di Gesù è rivolta a sua madre che gli dice: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre e io angosciati ti cercavamo, e Gesù: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare nelle cose del Padre mio?

Non lo so se sia realmente accaduta questo fatto, ma se osserviamo le domande con attenzione, queste sono ancora le nostre domande, tutta la storia è questa ricerca continua tra Dio e l’uomo, un incalzare di interrogativi, di dubbi, di perplessità, di perché!

Proviamo a rileggere questo racconto di Luca come un midrash, vale a dire andiamo al di là del senso letterale e scrutiamo il testo in profondità cercando di cogliere quei significati che a prima vista non appaiono e che sono tutti da scoprire per rispondere alle nostre esigenze di vita.

Gesù poteva essere ritrovato dopo due giorni o dopo una settimana… invece quel rimando ai tre giorni è evidentemente un richiamo a quanto è accaduto a Pasqua, quando la famiglia di Gesù, la sua comunità, ha dovuto perderlo nel tempio per poi ritrovarlo sulla strada di Emmaus!

La comunità non voleva che Gesù morisse, non poteva finire tutto in quel modo… da qui la domanda: Perché hai fatto questo? E la risposta di Gesù è la domanda che il risorto rivolge a Maria di Magdala: Donna perché piangi? Chi cerchi?

È la domanda delle domande: Chi cerchi? Sta a dire che Maria di Magdala, così come Maria e Giuseppe ad un certo punto del loro lavoro educativo devono “perdere” l’oggetto del loro amore, devono lasciar andare quel figlio.

In ogni famiglia, anche in quelle che ci sembrano più tranquille, caso mai ce ne fossero, c’è un momento in cui si rende necessario “perdere” i figli, occorre smarrire le aspettative legittime che ci si siamo fatti, così come la comunità di Gesù ha dovuto perdere e smarrire le proprie attese e aspettative e questo è terribilmente doloroso, apre delle ferite sanguinanti che nemmeno la risurrezione elimina.

Ricordate Gesù risorto incontra i suoi discepoli e le sue discepole ed essi ritrovano il loro maestro e lo riamano con uno slancio strepitoso, ma le ferite rimangono, i segni della croce misteriosamente non vengono cancellati.

Sono i segni trasfigurati di quella sofferenza e di quel dolore che la delusione delle aspettative e dei nostri desideri comporta, ma che sono indispensabili perché si dischiuda il futuro.

Pensiamo a quando Abramo si dichiara disposto a sacrificare il figlio Isacco! È scandaloso questo racconto, ma non perché chiede l’offerta cruenta del figlio a un Dio avido di sangue, sappiamo bene che non finirà così, ma per la sottomissione del padre Abramo alla legge di una parola che esige che anche il figlio della promessa debba essere perduto, debba essere lasciato andare.

Abramo non ha l’ultima parola sul destino del figlio, ma è colui che lo sa lasciare andare. Il racconto trasmette quella sapiente rinuncia radicale al possesso dei propri figli che è una rinuncia che non si può subire, ma va scelta, deve essere decisa da parte di Abramo. Non è una semplice evoluzione delle cose, anzi, tra i compiti di un genitore, è quello più difficile.

Questa della relazione padre e figlio è una delle dinamiche intriganti della nostra vita e sappiamo quanto la mitologia, la psicanalisi, la letteratura, i film, l’arte… abbiano interpretato e continuino a indagare queste dinamiche profonde. Massimo Recalcati[1] scrive che il nostro tempo non è più solo segnato come simbolicamente evoca il complesso di Edipo dal conflitto tra generazioni, dove il padre sarebbe considerato dal figlio come un ostacolo per la realizzazione del proprio piacere.

Ma non è più nemmeno un tempo segnato solo dall’affermazione edonista e sterile dell’io evocata dalla figura del figlio Narciso… piuttosto il nostro è il tempo di una domanda inedita di padre, di una invocazione, di una richiesta di qualcuno che riporti la credibilità di una testimonianza della parola data… e questo è rappresentato da Telemaco, figlio di Ulisse e di Penelope, che nel racconto dell’Odissea di Omero, rimane con la madre per vent’anni sull’isola di Itaca devastata dai Proci, in attesa del ritorno del padre. Cosa fa Telemaco?

Se Edipo viveva il proprio padre come un rivale, un ostacolo sulla propria strada al punto da compiere i crimini peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre, al punto che l’ombra della colpa lo spinge al gesto estremo di cavarsi gli occhi.

Se Narciso è l’idolo-bambino che impone alla famiglia di modellarsi attorno alla legge arbitraria del suo capriccio e finisce per autodistruggersi affogando nello stesso fiume in cui contempla la sua immagine… Telemaco coi suoi occhi scruta il mare, guarda l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la legge nella sua isola, per riportare la giustizia e il rispetto. Non si tratta di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone, ma quella del diritto, della giustizia e del rispetto.

A me sembra che in qualche modo nel racconto evangelico Gesù richiami la figura di Telemaco, come il figlio che scruta l’orizzonte, che osserva il mare aperto, quando dice: Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Letteralmente “che io devo stare” nelle cose del Padre, non si tratta semplicemente di fare… ma di stare in un orizzonte altro, oltre e non semplicemente in un modello di famiglia che la società esige.

Ora per noi non si tratta tanto di aspettare, come nel mito di Telemaco, il ritorno di un padre che risolva tutti i nostri problemi, da sempre ci si aspetta un Dio così, risolutore e semplificatore… ma come scriveva Isaia Veramente tu sei un Dio nascosto e forse è per questo come scrive Luca che essi (i suoi genitori) non compresero ciò che aveva detto loro. Per poter capire occorre lasciare che le domande di Gesù ci scavino dentro giorno dopo giorno e ci conducano a praticare la giustizia, il rispetto e la legalità di cui l’isola di Itaca era priva e di cui anche il nostro mondo ha tanto bisogno.

Sarebbe intrigante lasciarci portare dalle domande di Gesù. Dal vangelo di Luca ne ricordo alcune: Se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? (6,32). Perché mi invocate: Signore, Signore! E non fate quello che dico? 6,46). Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? (18,8) Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? (22,27) e poi quella del passo di oggi: Perché mi cercavate? Perché ti cerchiamo Cristo?

Ci preoccupiamo di come incontrare il Signore, ma lasciamo che sia lui a entrare in relazione con noi, con le sue domande che confortano e incalzano. La forma del punto di domanda deposto nel nostro cuore ricorda quella di un amo da pesca, che il vangelo cala dentro di noi per lasciarci agganciare da Cristo e per camminare da giusti e retti nella vita.

Non è forse questo il destino di ogni figlio?

(Is 45, 14-17; Lc 2, 41-52)

[1] Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, 2013