DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Mt 25, 31-46


Dopo queste parole di Gesù ho davanti a me almeno due possibilità.

La prima è quella di stare in silenzio per leggere ancora queste righe, rileggerle, riascoltarle e riascoltarle ancora sine glossa, senza ulteriore spiegazioni. E questo ciascuno di noi lo potrebbe fare sicuramente in settimana. Stare in silenzio, perché?

Per dare il giusto spazio a queste parole come argine a tutto l’odio che cresce intorno a noi, come antidoto ai rigurgiti paurosi di fascismo e di razzismo che tornano a bruciare librerie; che costringono a mettere sotto scorta un’anziana signora senatrice una delle poche persone tornate vive da Auschwitz; che riscontriamo anche sui campi di calcio dove si vomita il peggior tifo possibile che non risparmia nemmeno i bambini… Insomma vorrei stare in silenzio e chiedere silenzio per cercare di capire da dove venga tutto questo marciume, come si possa a 70 anni dalla liberazione, pensare ancora che il passato sia una via di futuro, come si possa – come dicevamo domenica scorsa – guardare la storia dallo specchietto retrovisore.

Vorrei capire cosa c’è nella testa di un fascista, vorrei riuscire a immaginare anche solo per un istante cosa anima la coscienza di un razzista… Ma la cosa peggiore che sono costretto mio malgrado a chiedermi e che dobbiamo chiederci è come ci si possa dire credenti – laici, preti e vescovi non fa differenza – e al tempo stesso sposare queste follie.

Quando l’ex presidente della CEI, il cardinal Ruini, afferma che il brandire in un comizio elettorale il rosario e il libro dei Vangeli è una maniera di affermare il ruolo della fede nello spazio pubblico[1], voi capite che lo sconcerto è grande, perché significa piegare inopinatamente i simboli della fede al servizio di un’ideologia.

E se oggi siamo in questa condizione, con un cattolicesimo italiano in questo stato di insignificanza, non dimentichiamo che per anni e anni è stato praticato un ostracismo spietato nei confronti di quei laici e preti che volevano tenere vivi i principi costituzionali dello “Stato sociale”, mentre a una certa categoria di atei devoti veniva dato riconoscimento e onore, pensate ai Ferrara ai Piera, quel presidente del Senato che denunciava il meticciato come un pericolo.

Anziché annunciare il Vangelo i vescovi italiani si trastullavano dietro la sigla dei “valori non negoziabili”, mandando al massacro almeno nel magistero, ma non nella base dei cristiani impegnati nel sociale, il senso di solidarietà, di accoglienza, di giustizia sociale, di umanità.

Non sarebbe oggi possibile d’altronde ritrovare tanti cattolici, e ahimè non pochi preti, che affermano senza vergogna “prima gli italiani” e “chiudiamo i porti”… riconoscendosi nell’atto a mio parare blasfemo, dell’agitare rosari e Vangelo che a cuor leggero Ruini giustifica come «affermazione della fede nello spazio pubblico».

Per questo però credo allora che oggi non possiamo stare in silenzio, non possiamo lasciare che le parole di Gesù rimangano esortazioni ingenue per anime belle.

Sono le ultime parole del Cristo alla vigilia della sua passione e morte. Il capitolo successivo comincia la narrazione degli ultimi giorni di Gesù, come a dire che in quest’ultimo discorso il Signore abbia voluto condensare l’essenza, il cuore del suo messaggio che non possiamo tradire.

È curioso: non parla di fede, non parla di preghiera, non parla di verità religiose. Sembrerebbe un discorso tutto impostato sull’orizzontale, sull’umano. Ma è curioso non parla nemmeno di amore inteso in senso generale.

Per quattro volte ripete quasi ossessivamente sei azioni concrete, che più concrete di così non si può e che sono, con buona pace di chi brandisce rosari e vangeli: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi, visitare i malati, andare a trovare i carcerati.

Ma ciò che sorprende ancor di più è il fatto che Gesù consideri fatto a lui quanto fatto a questi fratelli più piccoli. Quando mai?

E questa è anche la sorpresa di entrambi i gruppi presi in esame: il giudice che li sta valutando, si considera destinatario di quelle azioni. E se il Signore ha voluto essere non solo così preciso nell’identificare sei gesti concreti, ma anche ripeterli per quattro volte vuol dire che davvero era importante lanciare un messaggio preciso. Tutti vogliamo amare, tutti crediamo che volersi bene sia la cosa più bella… ma se questo non diventa concreto e soprattutto se questo non diventa concreto nei confronti di chi è in fondo alla scala sociale… non è amore.

Bisogna scendere giù in fondo e lì possiamo trovare Cristo. Senza nulla togliere alle singole persone che sono in quelle condizioni perché hanno una loro dignità, una loro umanità che va rispettata, però lì troviamo Cristo.

Cosa significa? Non significa che facciamo le opere di misericordia per amor di Dio! Non sempre chi fa le cose per amor di Dio le fa per amore.

Ma vuol dire che percorriamo quella strada che Gesù ha compiuto fin dal momento in cui è iniziata l’incarnazione e che lo ha condotto fino a essere umano come noi-

Dicendo che il bene fatto o non fatto a chi ha fame, a chi è malato, al forestiero è fatto non fatto a lui, a Gesù, abbiamo un’affermazione che dice che Dio considerato l’Onnipotente in realtà viene come figlio d’uomo, già annunciato dal profeta Daniele, nel senso che Gesù non si è fatto uomo solo facendosi bambino piccolo, né solamente facendosi obbediente a suo Padre, accettando anche il calice amaro; si è fatto uomo morendo calunniato, giudicato ingiustamente, disprezzato e abbandonato proprio da coloro con i quali aveva condiviso i valori, condannato da coloro che sono i responsabili religiosi del suo stesso popolo e che, facendo questo, intendono proprio servire il loro Dio, che è suo Padre!

La povertà più profonda è qui. Per questo per un cristiano il vero motivo per amare il povero è la certezza che quello è il luogo scelto da Dio, quello è il tempio di Dio.

Oggi una religione di stato, una religione che faccia da collante con l’idea di patria, in contrapposizione alla religione della patria di un altro è la contraddizione del principio evangelico dell’incarnazione di Gesù. Suona come una bestemmia.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a una ideologia che si serve della religione per supportare le sue istanze razziste. Non pensiamo semplicemente che si tratti di qualcuno di isolato, di un singolo che vive di nostalgia malata… qui è in atto un vero e proprio processo culturale che ci riguarda. Perché se è vero che la Germania col processo di Norimberga è stata costretta a processare i responsabili di quel fenomeno terribile qual è stato il nazismo, l’Italia no.

Noi non abbiamo mai fatto una seria revisione delle responsabilità di coloro che avevano scelto il fascismo e il suo fatale abbraccio col nazismo, tant’è che inequivocabilmente molti di loro che avevano delle responsabilità si sono immediatamente riciclati e reimmessi nel contesto diverso della democrazia, ma con la testa malata di prima… e le conseguenze sono tutte qui da vedere.

Ora noi come discepoli di un Dio che si è fatto povero e che continua a incarnarsi nei poveri, abbiamo delle responsabilità storiche cui non possiamo più sottrarci, ma non per vedere trionfare il cattolicesimo o per vedere la chiesa brillare di luce propria… saremmo la contraddizione del messaggio che abbiamo appena ascoltato. Lo facciamo per amore dell’uomo, perché l’umano diventi sempre più tale e non c’è altra via che quella dell’incarnazione.

Gesù non ha semplicemente fatto delle cose per i poveri, non ha organizzato delle attività per loro, ma è venuto a liberarci dalla nostra disumanità per umanizzarci. Infatti ha assunto nella propria umanità, l’umanità sofferente, l’umanità scartata, l’umanità emarginata, come narra l’immagine del vangelo: Gesù identificandosi nell’umanità sofferente, sceglie di liberarci dalla disumanità decidendo di stare nell’umanità divisa in due, tra quella sofferente e il suo carnefice, dalla parte di chi sta male.

È precisamente qui la nostra responsabilità storica come discepoli: nella misura in cui non aiutiamo, non testimoniamo, siamo corresponsabili di ciò che accade. Quando il povero non viene riconosciuto da noi come fratello, ci installiamo dalla parte dei carnefici.

Chiediamo al Signore di imparare da lui: a scegliere il povero come Signore, ogni giorno.

(Dn 7,9-10.13-14; Mt 25,31-46)

[1] Intervista al Corriere della sera del 3 novembre 2019, p.11