V DI PASQUA - Gv 17, 1b-11
Giovanni ci fa un bellissimo dono oggi con le parole della preghiera di Gesù di cui abbiamo ascoltato solo la prima parte, ma già questi versetti toccano alcuni aspetti che vengono ripresi nello svolgersi della preghiera.
Di fronte alla quale sembra si essere sulla riva del mare: le parole sembrano come le onde che arrivano a smorzarsi sulla battigia, poi subito dopo ne arrivano altre che si infrangono su quelle che precedono… Pare che siano sempre uguali, che dicano sempre la stessa cosa, ma in realtà è un movimento che si rinnova portando a riva un pensiero e riportandone altri nelle profondità, come a movimentare tutto il mare.
È un modo per esprimere lo stesso movimento d’amore che si rinnova di versetto in versetto: dal Padre al Figlio, dal Figlio a noi, da noi agli altri, dagli altri all’universo, fino a quando tutti siamo uno! Così conclude il vangelo di oggi.
Nella preghiera di Gesù più che capire, occorre che prima ci immergiamo e allora abbandonandoci al movimento del mare ci viene dato di partecipare allo stato d’animo del Signore.
Purtroppo non ci viene facile, perché non c’è consuetudine all’interiorità, a conoscere cosa c’è dentro di noi, siamo sempre un po’ tirati dal di fuori, dalle cose che facciamo, dagli stimoli e dalle suggestioni che riceviamo, dall’incalzare delle notizie, delle novità che creano dispersione nei nostri cuori e a lungo andare ci lasciano aridi e scettici, Voi che opponete sempre resistenza allo Spirito Santo, come diceva Stefano nella prima lettura!
La preghiera di Gesù, anzi ancor prima delle parole, il suo stesso atteggiamento, quell’ “alzare gli occhi al cielo”, sono un appello per noi che appunto siamo tirati di qua e di là da tante cose, a saperci fermare, a non fare niente almeno per un’ora per conoscere l’intimità che ci abita, capire che le cose principali le portiamo dentro, anche se non siamo educati a riconoscerle.
L’alzare gli occhi al cielo di Gesù ha un valore simbolico forte: il Signore orienta la mente e il cuore verso il Padre, e così anche noi siamo invitati a orientarci nella stessa direzione.
Senza la vita spirituale siamo delle macchinette che fanno cose, producono cose, macchinette a volte infelici, perché non siamo fatti solo per produrre, per comprare, per vendere… ci vuole anche questo, ma sarebbe terribile se la nostra vita si riducesse a questo: siamo fatti per entrare in relazione, per costruire rapporti con il creato, con gli altri e con il Padre. La nostra vita spirituale è intessuta di queste relazioni che sono la sostanza della nostra esistenza.
Gesù ce ne rende consapevoli, facendoci partecipare alla sua preghiera. Siamo nel Cenacolo, o nel Getsemani, non sappiamo, di sicuro è una delle poche preghiere di Gesù di cui abbiamo le parole, anche perché non c’è nel vangelo di Giovanni la richiesta degli apostoli di insegnare loro a pregare. Gesù insegna qui a pregare (sarebbe interessante ripercorrere le sette domande del Padre nostro alla luce del capitolo 17 di Giovanni).
Allora cerchiamo di immergerci in questo testo, che è appunto come immergerci in un mare, fatto di onde che rincalzano in continuazione.
La prima onda è quella dell’ “ora”: Gesù alzàti gli occhi al cielo disse: Padre è venuta l’ora. Ricordiamo il giorno in cui Gesù disse a sua madre: Non è giunta ancora la mia ora. Era la festa delle nozze di Cana di Galilea, in occasione della quale Gesù compì il suo primo segno. Adesso invece alla vigilia della passione, dichiara espressamente: È venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre (Gv 13,1).
I due testi si illuminano reciprocamente: a Cana Gesù offre a un’umanità che ha perso la gioia e il gusto della vita, il vino della festa. Allora donare il vino era solo l’anticipo del dono di se stesso che Gesù avrebbe fatto sulla croce e che nella cena del Signore è diventato la condivisione del calice di vino che è il calice del sangue, della vita donata, della gioia senza paragoni.
Questa è l’ora di Gesù. Ed è anche la nostra ora: in un contesto sempre più duro, in relazioni sempre più difficili e complicate, dove la diffidenza, il disinteresse, portano a imbruttire la nostra convivenza, l’ora in cui ci sembra che la nostra umanità regredisca nel diventare sempre più disumana… questa è per noi l’ora di donare, di donare, di donare. Senza paura, senza attendere le conferme, senza gli applausi.
E poi abbiamo la seconda ondata, quella della “gloria”. Notiamo come Gesù non parli di morte, ma dica di “ritornare al Padre”. Se ritorna è perché c’era già, come diceva il prologo: In principio il Logos era presso Dio… poi è diventato carne e ora ritorna al Padre.
Il dono di Gesù ha senso in questa lettura della sua vita come in un movimento di onde, di quel dinamismo di cui parlavamo all’inizio, ed è appunto in questo contesto che il dono ha un suo senso perché impariamo a guardare le cose da questa prospettiva che è diversa da quella meramente commerciale cui siamo abituati.
La gloria di cui parla Gesù, l’insistenza sul verbo glorificare, è tutta in questo movimento: come si dona il Padre, come si dona Gesù, così si dona il discepolo. Allora si conosce Dio, si conosce la verità di Dio che Gesù ci ha donato, ed è proprio nella misura in cui questa verità conquista il nostro cuore e cambia qualcosa che noi possiamo conoscere Dio, e non è un fatto puramente mentale, teorico. Come diceva Ireneo di Lione con una frase divenuta celebre: La gloria di Dio è l’uomo vivente. L’uomo che ama e dona, che ama e perdona, che ama ed è felice… ecco la gloria di Dio.
La gloria di Dio non è fatta di incenso e di turiboli, di processioni e di trionfi… è l’uomo, il bambino, l’anziano, il giovane che vive, che ama e che dovrebbe sempre avere, in qualunque condizione esso sia, tutta la nostra cura e attenzione.
Ed è di questa gloria che Gesù rende partecipi i discepoli, e questa è come una ulteriore ondata, quando dice «Ti prego Padre per coloro che tu mi hai dato» perché sono tuoi! La relazione di Gesù col Padre assorbe anche la sua relazione con coloro che lo amano, lo seguono, magari non sempre lo capiscono, però si sono messi in gioco e i discepoli sono la primizia di tutta l’umanità perché attraverso di loro tutti conosceranno il Vangelo.
Quando si dice «tutti» nella Bibbia, non è «tutti» e basta; «tutti» vuol dire che uno lo dice all’altro, e ancora all’altro, e poi sono «tutti» perché la totalità avviene attraverso la relazione dei singoli che non sono una massa informe e anonima, ma appartengono a qualcuno.
Erano tuoi e li hai dati a me: bellissimo, siamo proprietà del Padre, siamo suoi, apparteniamo a lui. È una convinzione che dovrebbe aiutarci a non cadere mai nella disperazione e nella desolazione, perché siamo dentro questa relazione che poi passa da discepolo a discepolo fino a quando «siano una cosa sola, come noi».
E questa potremmo dire è come l’ultima onda di questo mare: Gesù non è un figlio invidioso. Gesù chiede per noi che lo conosciamo e che siamo nel mondo di poter essere una cosa sola, di poter essere “uno”. Gesù chiede il dono dell’unità. Ma quale unità?
C’è l’unità che è l’uniformità dettata dai veri sovrani della nostra società e che sono il mercato, la tecnologia, il sistema mediatico, la burocrazia, la geopolitica e questi sono sistemi ad alta entropia perché impongono come vincolanti per tutti le loro esigenze e fanno valere come concreta la loro logica, rendendo astratte le persone, le relazioni e la vita stessa. Una simile forma di società non è accogliente per nessuno perché riduce le persone a funzioni o a scarti di questi sistemi dove ognuno affronta la vita come se fosse un’isola.
Né ci basta più una certa filantropia che a ben guardare ha dell’assurdo. Ci sono delle società del gioco d’azzardo che finanziano campagne per curare quei giocatori patologici che esse stesse creano. Papa Francesco in un suo discorso sull’Economia di Comunione ha detto: «Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine». È chiaro che quelli sono sistemi ad alta entropia incapaci di generare comunione. Creano una falsa solidarietà dopo aver generato guerre su cui lucrare.
L’unità che Gesù invoca è come quella che sussiste tra lui e il Padre come noi, che non è uniformità, omologazione, non cancella le differenze. Gli antichi cristiani ricorrevano alla metafora delle pietre vive, non dei mattoni. Che differenza c’è tra le pietre e i mattoni? I mattoni sono tutti uguali, le pietre sono tutte diverse. L’unità è l’unità non dei mattoni, come quella che vorrebbero alcuni, ma delle pietre. La tendenza mondana è quella di fare unione omologando le persone, riducendole a massa, a folla, che è sempre “bestiale”, perché vige l’ognuno per sé e non c’è comunione, ma solo rivalità, guerre, violenze, e ognuno affronta la vita come se fosse un’isola.
Se questa è stata la domanda di Gesù al Padre nelle sue ultime ore di vita, è perché c’è in gioco una dimensione troppo importante: il Signore vuole, chiede, prega perché noi siamo come lui e il Padre per immergere l’umanità nell’oceano dell’amore di Dio.
Cercare l’unione all’interno della famiglia, delle comunità, delle chiese nel dialogo ecumenico non è una delle tante cose, ma diventa il sacramento di Dio di cui ha bisogno il mondo. Dove c’è comunione tra due, lì c’è il terzo, il Padre. Ed è il dono più importante.
Tutti noi, tutti i discepoli, tutti i cristiani dovremmo leggere questa preghiera infinite volte, fino a farcela entrare dentro, a metabolizzarla al punto che generi in ciascuno di noi un altro modo di stare al mondo.
(At 7; Gv 17,1-11)