V DOPO PENTECOSTE - Lc 13, 23-29


Ci siamo lasciati domenica scorsa con il grido del sangue di Abele che rimaneva sospeso a mezzaria senza nemmeno la possibilità della vendetta, perché il Signore aveva dichiarato la sua protezione per Caino, ed oggi la Genesi rincara la dose facendoci ascoltare un altro grido.

Oggi il grido sale da una città, anzi da due città Sodoma e Gomorra, città il cui peccato è troppo grande, troppo grave e che fa ricordare anche un altro grido: quello degli israeliti che ridotti schiavi in Egitto gridavano la mancanza totale di diritto e di giustizia.

Non è forse questo il motivo per cui gran parte dell’umanità ancora oggi grida la sua disperazione: perché manca di giustizia e diritto? E non sono forse proprio la mancanza del diritto e della giustizia a condurre una città, una società, l’umanità all’autodistruzione? Succede come a Sodoma e a Gomorra che quando vengono meno i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo si imbocca una strada che conduce alla violenza, alla guerra.

Come è stato più volte detto: I fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti di fango. Ed è un dato storico incontrovertibile, lo possiamo ricostruire nelle vicende che hanno preceduto le due grandi guerre, lo ritroviamo nelle ribellioni e rivoluzioni disseminate quale e là.

Con una certa preoccupazione lo registriamo oggi quando fiumi di fango vengono a stravolgere la comunicazione e la fiducia; quando il fango dell’odio e della discriminazione, del pregiudizio e della violenza verbale emargina ed esclude; quando fiumi di fango dell’istigazione e dell’ignoranza ci fanno gridare: dove andiamo a finire? Dobbiamo aspettarci fiumi di sangue?

Non voglio essere profeta di sventura, anzi, è proprio questa la provocazione che ci viene dalla parola di Dio: non rassegniamoci all’inevitabile, piuttosto assumiamo noi stessi l’atteggiamento di Abramo. Dietro questa immagine di contrattazione che Abramo sostiene con Dio, simile a una di quelle situazioni che forse anche a noi è capitato di vivere in qualche suk o mercatino arabo per ridurre il prezzo della cosa che volevamo comprare, sembrerebbe quasi che il patriarca voglia insegnare a Dio a fare il suo mestiere.

In realtà emerge tutta l’ostinazione di Abramo nel cercare di vedere e di riconoscere nel buio anche solo una fessura di speranza. Fare tre domande nel mondo semitico era davvero più che sufficiente! Abramo raddoppia nella speranza che Dio possa trovare qualche giusto. Se io trovo, dice l’Eterno. Perché Abramo è un uomo di fede in Dio, ma è anche capace di una inguaribile fiducia nell’uomo, nel genere umano. Non sono tutti così, sembra dire il patriarca, ci sarà pure qualcuno capace di arginare l’onda di fango!

Proviamo a immaginare la scena: mettiamoci su quella terrazza naturale dalla quale Abramo vede in un colpo d’occhio le due città. Conosce benissimo la loro iniquità, l’ingiustizia, la corruzione… insomma conosce il fango in cui sono immerse, eppure da quella terrazza ha una prospettiva diversa, di futuro, di speranza, di giustizia.

Dalla terrazza di Abramo possiamo vedere una prospettiva di futuro per l’umanità. Lo aveva intuito profondamente Giorgio La Pira che vedeva il Mediterraneo sul quale si affacciano le tre grandi religioni monoteiste che appunto sono religioni che adorano il Dio Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivo e vero, come «il lago di Tiberiade» del nuovo universo delle nazioni… E scriveva: non è questa la «terza forza» di cui si va in cerca con tanto affanno? Non è proprio questa la pietra d’angolo politica e civile sulla quale si può edificare la nuova casa dei popoli e delle nazioni? Non è proprio questo il «punto» di rilancio della fede in tutte le direzioni della terra? A me la cosa pare così chiara: mi pare tanto evidente che la crisi del mondo trovi qui la sua soluzione fondamentale… e da qui essa riparte per la sua nuova avventura storica che avrà per prospettiva i secoli futuri e le nazioni future.
Le nazioni tutte devono «ribagnarsi» nel «mare di Tiberiade» ingrandito: da qui fiorirà la loro rinascita e la loro nuova ripresa… Perché da Oriente e da Occidente le nazioni «vengano a bagnarsi» in questo grande lago di Tiberiade, che è, per definizione, il lago di tutta la terra
[1]. 

Ostinazione? Fantasia, Idealismo? Probabilmente per qualcuno sì, ma non per La Pira, come non lo era stato per Abramo. Abramo non si abbandona al lamento per i valori perduti, non si concede un’analisi psicosociale della decadenza, Abramo ha a cuore il destino di una città, di un paese e di fronte al grido che sale dall’incapacità umana di salvarsi dal fango, si rivolge a Dio. Prega e la sua, non è la preghiera che chiede il miracolo risolutivo, la sua è una preghiera d’intercessione.

Abramo si mette in mezzo: in fondo né Sodoma, né  Gomorra sono la sua città, eppure la sua è una preghiera che suppone un affetto profondissimo. Non è la semplice preghiera che qualche volta facciamo stancamente per qualche intenzione, rispondendo: ascoltaci, Signore! e che ci coinvolge fino a un certo punto. La preghiera fatta per coloro di cui avvertiamo la responsabilità, di cui portiamo il peso, con cui partecipiamo a un rischio è quella che ci porta a conoscere il disegno di Dio. Perché se non conosciamo questo disegno come possiamo chiedere che si adempia?

Allora intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Scriveva il card. Martini: «Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. […] Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione»[2].

Intercedere non è dunque qualcuno che da lontano prega genericamente «per …», bensì qualcuno che si mette in mezzo, che entra nel cuore della situazione, che stende le braccia sull’uno e sull’altro per unire e pacificare.

Mi hanno molto colpito le parole che 62 monasteri di Suore di clausura d’Italia hanno rivolto al Presidente della Repubblica, per dire la loro preghiera d’intercessione per coloro che credono di mandare avanti il mondo con la violenza, con l’odio e con la paura, tra l’altro scrivono: «Siamo profondamente convinte che non sia ingenuo credere che una solidarietà efficace, e indubbiamente ben organizzata, possa arricchire la nostra storia e, a lungo termine, anche la nostra situazione economica e sociale. È ingenuo piuttosto il contrario: credere che una civiltà che chiude le proprie porte sia destinata ad un futuro lungo e felice, una società tra l’altro che chiude i porti ai migranti, ma, come ha sottolineato papa Francesco, «apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti». Ciò che ci sembra mancare oggi in molte scelte politiche è una lettura sapiente di un passato fatto di popoli che sono migrati e una lungimiranza capace di intuire per il domani le conseguenze delle scelte di oggi» [3].

Anche oggi c’è bisogno di qualcuno che si metta in mezzo, di qualcuno che, per dirla con le parole di Gesù, attraversi la porta stretta del Vangelo. La porta è stretta perché richiede un grande lavoro su noi stessi e sul nostro individualismo, un lavoro che non finisce mai e che dura tutta la vita, perché se vogliamo amare davvero non possiamo pensare di risolvere i problemi chiamandoci fuori dalle contraddizioni, anzitutto da quelle che ci abitano. Ed è passando per questa porta stretta che possiamo salire sulla terrazza di Abramo per avere una visione di futuro capace di abbracciare il lago di Tiberiade, il Mediterraneo e gli oceani di un’umanità solidale, riconciliata.

Ma ci vogliono tipi ostinati come Abramo, come La Pira, come Martini, come le suore di clausura… Chiediamo al Signore un po’ dell’ostinazione di Abramo.

(Gen 18, 16-23; Lc 13, 23-29)

[1] La Pira a Pio XII, 4 maggio 1958.

[2] C. M. Martini, Un grido d’intercessione, 29 gennaio 1991

[3] Lettera di alcuni Monasteri di clausura a Mattarella 11 luglio 2019