III DI AVVENTO - Mt 11, 2-15
(Is 35, 1-10; Rm 11, 25-36; Mt 11, 2-15)
Giovanni Battista dalle parole del vangelo che abbiamo ascoltato parrebbe mettere in discussione il titolo che è stato dato a questa terza domenica di Avvento: Le profezie adempiute. Giovanni, rinchiuso da Erode in prigione sembra di tutt’altro parere, al punto che manda un’ambasceria dal Cristo per domandargli: Ma sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?
Lo stesso Isaia, o meglio «Isaia.2» perché si tratta di un profeta che prende lo stesso nome anche se vive una condizione più tardiva di almeno duecento anni dal primo, deve convincere la sua gente che la violenza subìta con la deportazione non è l’ultima parola. La promessa di Dio non viene meno.
Saper vedere una via santa che attraversa il deserto, poter credere che la terra arida e la steppa possano fiorire, immaginare che le situazioni di tutti noi che siamo qui e per le quali ci troviamo ad essere preoccupati: per qualcuno sarà la salute, per altri il lavoro, per altri ancora le relazioni … ecco credere che queste situazioni potranno cambiare, così come credere che un cieco possa vedere, uno zoppo possa mettersi a saltare o un muto a cantare … Ecco tutto questo potremo dire si pone sul confine tra la fede e l’illusione. Dove è il compimento delle profezie, delle Scritture? Siamo noi a darci delle speranze per riuscire ad andare avanti come se avessimo bisogno di costruirci con la nostra immaginazione un futuro improbabile?
Siamo noi, e lo dico con le parole di Isaia, che ci inventiamo un sentiero, una via santa, laddove invece non c’è che la dura realtà di una landa arida e deserta? Come diceva il titolo di un libro di qualche anno fa: siamo noi che «Crediamo di credere?».
Per rimanere a Isaia, le due deportazioni del popolo, una nel 597 e l’altra nel 586, ad opera di Nabucodonosor erano state un disastro, un vero e proprio fallimento politico, ma anche spirituale, religioso. Per l’ennesima volta la violenza e il sopruso cantavano vittoria sul palcoscenico della storia. Insomma il più forte vince sempre e il debole deve solo rassegnarsi e subire. I poteri fondati sulla violenza, sulla prepotenza e sulla corruzione crescono sempre sulla pelle dei poveri, della gente semplice e sembrano inarrestabili nel loro successo.
Ma Isaia.2, il profeta, l’uomo di Dio sa guardare con gli occhi della fede la storia, sembra dire: Non lasciatevi ingannare dalla parabola di quel regno arrogante e violento che ha ridotto Israele a un deserto di speranze, se c’è la gloria e il successo sembrano essere allo zenit, presto o tardi precipiteranno nel nadir: tanto più alto è il successo, tanto più la prepotenza e l’arroganza prima o poi sprofondano. E infatti di lì a qualche anno, siamo nel 553, Ciro re di Persia inizierà le sue campagne vittoriose che ribalteranno l’impero babilonese così che Israele potrà tornare a casa.
Il problema però non è risolto, anzi tutta la storia umana sembra correre via così: a un potere ne succede un altro, a una violenza ne segue un’altra, ora più illuminata, ora più violenta.
Lo stesso destino sembra toccare a Giovanni il Battezzatore, questo giovane trentenne coetaneo di Gesù che abbiamo lasciato domenica scorsa nel deserto e che ora sappiamo rinchiuso in carcere. Anche nei suoi confronti l’arroganza del potere e della corruzione non hanno esitato a tappargli la bocca. Il profeta dava fastidio: aveva osato denunciare l’immoralità di Erode Antipa che si era messo con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo e che per questo l’aveva rinchiuso in galera.
Il profeta, lo spirito libero del deserto che aspettava l’irrompere della giustizia di Dio sulla faccia della terra, ora è ridotto all’impotenza, non può battezzare più nessuno e le sue parole rimangono soffocate dentro le pareti di una cella, represse dalla prepotenza di Erode.
A ben guardare scendiamo anche noi con lui nel buio della prigione di Macheronte, che è l’immagine della prigione della storia umana e da lì ascoltiamo la domanda angosciata del Battista che è anche la nostra domanda: ma siamo condannati a ripetere la storia, a subirla sempre uguale in questo crudele gioco di vittime e di oppressori?
Ciò che turba Giovanni, ciò che lo preoccupa e lo sconvolge di più è che non vede realizzarsi la promessa di cambiare l’essere umano secondo quello che lui si aspettava e che il Messia avrebbe dovuto fare. Per questo manda a dire a Gesù: «Sento dire dai miei discepoli che vengo¬no a trovarmi, che tu Gesù di Nazareth predichi la misericordia e il perdono, l’amore per i nemici e il porgere l’altra guancia… Non solo, ma guarisci i malati, lebbrosi, paralitici, scacci gli spiriti immondi, mangi e bevi con i pubblicani, hai perfino guarito il servo di un centurio¬ne romano, ti circondi di pescatori, hai chiamato anche un pubblicano a seguirti… Ma come è possibile? Io ho dato voce alle promesse dei profeti, ho annunciato il tempo dell’ira di Dio, la cui scure è posta alla radice degli alberi infruttuosi, avevo previsto un fuoco purificatore … e invece sono ormai trascorsi diversi mesi e io sono in prigione e la scure si sta avvicinando al mio collo più che a quello dei malvagi!
Sarebbe questa l’ora in cui Dio premia i giusti e punisce gli empi? Non sono sempre i deboli a pagare il caro prezzo dell’ingiustizia? Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Questo è lo scandalo che Giovanni vive nella sua coscienza e che non è lontano dal nostro pensiero quando scendiamo nel buio della prova, della delusione, della sofferenza e del dolore e arriviamo a dire: «Ho pregato il Signore e non mi ha ascoltato! Non ha fatto quello che gli ho chiesto!».
Siamo anche noi un po’ come il Battista, vorremmo che finalmente nel mondo trionfasse la giustizia, che i migliori ci governassero, che a tutti venisse riconosciuta una pari dignità, che ci fosse lavoro per tutti… «C’è troppa ingiustizia nel mondo», mi diceva l’altro giorno una signora, motivando il suo garbato «no» alla mia domanda se gradiva la benedizione della casa.
Il passaggio dal desiderio della giustizia al fare giustizia e al desiderare un giustiziere è breve. E forse anche noi vorremmo tanto che Gesù venisse a sistemare le cose… Ma tutte le volte che nella storia è stata fatta giustizia così, cosa è accaduto? Che a un potere se ne è sostituito un altro, a un potente è subentrato un altro prepotente. Mi sembra questa la dolorosa constatazione di Gesù quando al termine della pagina di oggi afferma: il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Questa è la dura legge della nostra umanità.
In che modo il Vangelo allora sferza questa dura logica della vita? Dovremmo rileggere con cura le parole di Paolo ai cristiani di Roma. Paolo risponde a una questione particolare perché i cristiani avevano un qualche problema con gli ebrei della loro città. Ma le sue conclusioni possono aiutarci, perché Paolo riconoscendo le difficoltà dei discepoli dice loro: Non siate presuntuosi, cioè non cercate soluzioni umane, non agite secondo la logica del giustiziere perché? Perché la chiamata e i doni di Dio sono irrevocabili!
Paolo dice che l’alleanza con Israele, anche se Israele non ha accettato Gesù come Messia, non è mai stata cancellata, perché la parola data da Dio è irrevocabile. Ma questo è vero anche per tutta l’umanità, perché se Dio ha creato ogni donna e ogni uomo a sua immagine, se Dio non ritira mai la sua promessa, allora non la cancella nemmeno dal cuore del peggiore dei delinquenti, per quanto possa essere un’immagine abbruttita e devastata. La parola data da Dio è irrevocabile.
Ed è su questa convinzione che Paolo spinge avanti la sua riflessione fino al limite dell’assurdo: Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per essere misericordioso verso tutti! È la tesi di tutta la lettera ai Romani: la disobbedienza dimostra che la salvezza è gratuità, non merito. Le persone, israeliti o pagani, non credenti o atei, possono essere nemici del Vangelo, questo è parte della storia e della libertà umana, ma da parte di Dio sono comunque amati, perché l’amore di Dio è irrevocabile.
Questo è il compimento delle profezie e il vangelo di Gesù ci rivela come stanno le cose dalla parte di Dio. Se si giunge a comprendere questo non ci sono più domande, come quella del Battista, ma la contemplazione e l’incanto dinnanzi al mistero: O profondità della ricchezza e della sapienza di Dio!
A questo punto la teologia diventa lode, dossologia, diventa contemplazione, silenzio grato ed è anche quello che vogliamo vivere ora in questa eucaristia.