FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA - Lc 2, 41-52
Cosa hanno visto gli occhi di Simeone? In base a cosa riesce a dire: Ora puoi lasciare Signore che il tuo servo vada in pace perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza?!
Cosa hai visto Simeone? Cosa riesce a vedere in un neonato di quaranta giorni portato al Tempio da mamma e papà?
Sembra che il tutto avvenga secondo la norma, secondo la legge, come insiste Luca per tre volte nei vv.22-24:
v.22 Secondo la legge di Mosè
v.23 com’è scritto nella legge del Signore
- 24 come prescrive la legge del Signore
La Legge sembra essere la parola chiave per entrare nella pagina e nel senso del passo che ci viene proposto dalla liturgia ambrosiana in occasione della festa della santa Famiglia di Nazareth.
Tutto accade secondo la Legge, il termine ebraico Torah di per sé indica l’insegnamento e quindi per estensione Legge. La Scrittura è un insegnamento che diventa anche normativo.
L’insegnamento è un dono di Dio a Israele perché sappia regolare il suo comportamento, il suo agire. Non è che Dio dica immediatamente quello che si deve fare, nella relazione con Dio e nell’esperienza del suo amore, della sua cura che affondano le radici le norme, le regole, i comandamenti per intenderci. Ma è ben proprio qui il problema e comprendiamo perché Luca insista tanto su questo aspetto indicando che il bambino Gesù è il compimento della Legge. Perché se prendiamo la legge in sé e si dà per scontata la relazione con Dio, si scade nel formalismo, nell’ipocrisia.
Un biblista del calibro di Leon Dufour in una sintesi folgorante si espresse così: Se il decalogo non diventa dialogo, si irrigidisce in catalogo. La morale del catalogo che tanto affascina il mondo religioso porta con sé un cortocircuito che verifichiamo noi stessi in certo cattolicesimo: l’insistenza e la fossilizzazione dell’osservanza formale ma non sostanziale della Scrittura finisce per trascurare e rilegare in secondo piano ciò che invece è prioritario nella rivelazione biblica: la misericordia, la fedeltà, la giustizia. Si fa davvero in fretta a ridurre la dottrina a catalogo di norme, la cui osservanza fine a sé stessa dimentica l’amore.
Se in una famiglia uno osserva le regole di casa, rispetta gli orari, non fa mancare nulla formalmente, ma se non ha amore, che famiglia è?
Nella famiglia che presenta Gesù al Tempio per compiere un atto previsto dalla Legge, si tocca fin da subito una questione che Gesù si prenderà a cuore. Egli stesso si troverà ad osservare la Legge ma rifiutando decisamente e contestando il formalismo e il legalismo, restituendo alla Legge il ruolo di pedagogo e non di feticcio, tant’è che in nome di quella Legge verrà messo a morte.
Allora una prima riflessione che possiamo fare è di domandarci come possiamo educare in famiglia al rispetto della legge, della legge biblica e della legge civile. Una famiglia che si dice cristiana tiene in una mano il Vangelo e nell’altra la Costituzione. Sono questi i due binari sui quali far correre la vita di famiglia proiettata nel futuro.
E questo riguarda ogni tipo di famiglia. Si calcola che a Milano le famiglie monoparentali, composte da una persona sola, siano il 46% delle famiglie in totale, contro una media nazionale del 33%. Se a questo dato aggiungiamo il drammatico calo delle nascite, nel 2018 abbiamo toccato il minimo storico del nostro Paese 439.747 bambini (il 4% in meno del 2017), siamo di fronte a questioni preoccupanti cui i nostri governanti sono chiamati a dare delle risposte politiche di sostegno reale alle famiglie al di fuori di ogni retorica ideologica.
Mentre sembra che su questi aspetti ci siamo rassegnati, siamo sfiduciati e non crediamo al bene comune: abbiamo profuso e spendiamo energie per difenderci dalle presunte invasioni degli stranieri come se fosse un’emergenza e non abbiamo niente da dire sulla tutela delle famiglie, delle giovani coppie che vorrebbero metter su famiglia.
Ora paghiamo un prezzo salato per esserci ripiegati sul nostro privato per troppo tempo e per esserci disinteressati del bene comune. Quanto tempo e quante energie abbiamo profuso nell’educare a una cultura della legalità o piuttosto implicitamente abbiamo trasmesso il messaggio che basta pensare a sé stessi, è meglio fare i furbi, voltare la faccia dall’altra parte e non farsi carico dei problemi degli altri?
Quanta intelligenza abbiamo messo per educare a comportamenti capaci di rispetto e di impegno per la trasparenza, per la legalità, per l’onestà e la cura del povero?
Maria e Giuseppe compiono un gesto del tutto normale, che non fa rumore, un gesto che tra l’altro è indicatore di una famiglia dignitosa che non potendo permettersi un agnello come prescrive Lv 12,8, porta al tempio due colombe.
Questa scena evangelica ci insegna anzitutto come la fedeltà espressa nelle piccole azioni quotidiane è sostanza nella vita di un popolo.
La fedeltà alle piccole cose, ai singoli atteggiamenti di amore fa sì che un piccolo episodio sia simbolo di tutta una maniera di vivere, semplice, nascosta, ma fatta di rispetto e di cura del bene comune.
Educare alla legalità significa compiere le piccole azioni di ogni giorno con passione, significa agire l’azione ristretta capace di strutturare tutta la vita di un popolo.
Quando la fede non informa di sé la nostra vita civile con lo spessore della fedeltà, è facile che diventiamo duri ed esigenti con gli altri e assai indulgenti con noi stessi.
È una condizione già vista nella storia. Come quando il popolo ebraico, una volta uscito dall’Egitto nell’attraversare il deserto, luogo di fatica e di prova della fedeltà, è preso dalla nostalgia delle cipolle d’Egitto, vale a dire è tentato di tornare dal faraone.
È più facile affidarsi alla presunta sicurezza del sistema autoritario, cui delegare completamente la soluzione dei problemi e la guida del popolo, che non chiedere a sé stessi la fedeltà e il senso di responsabilità, disposti anche a mettere la Costituzione dietro alle spalle.
Domani celebriamo la Giornata della memoria, e Dio sa quanto abbiamo bisogno di non dimenticare di cosa siamo stati capaci nel secolo scorso. Ma la memoria non basta, la memoria diventa nostalgia sterile se non educhiamo alla legalità, se non recuperiamo una cultura della legalità che non è possibile al di fuori di un ethos condiviso come la fedeltà alle realtà quotidiane con la quale si ricostruisce un tessuto sociale.
Proviamo a pensare quanta passione civile, morale, spirituale possiamo mettere nei gesti quotidiani volti al rispetto dei diritti umani, al rispetto delle diversità, al rispetto dell’ambiente…
Il bene comune si nutre delle piccole o grandi fedeltà di ciascuno di noi, non si regge sul formalismo o sul legalismo esteriore che diventa facilmente fanatico.
La scena evangelica ci dice anche un’altra cosa nella figura dell’ anziano Simeone che accogliendo Maria e Giuseppe che gli portano il piccolo Gesù, è capace di riconoscere che sta accadendo qualcosa di nuovo.
Succede una cosa nuova al punto che Simeone compie il gesto dolcissimo di abbracciare il neonato e pronuncia parole pacificanti per uno che è al tramonto della vita.
Eppure Simeone non aveva elementi tali da poter dire che Dio fosse lì! Tutt’altro tra l’occupazione romana, le tresche tra erodiani e l’aristocrazia sacerdotale, il rigorismo dei farisei, le disuguaglianze sociali… anche Simeone avrebbe potuto lamentarsi del silenzio di Dio e invece arriva un bambino al Tempio portato dai suoi genitori e lui prendendolo in braccio dice: Ecco, io sono contento, i miei occhi riconoscono che la promessa di Dio è qui!
Cosa vede Simeone in un neonato? Vede il compimento della Legge che si concretizza nell’incontro personale con Cristo, nello stabilirsi di una relazione con Gesù.
Il futuro sta qui nell’amore di cui sarà capace Gesù e per questo Simeone lo abbraccia. Il futuro è nelle braccia che abbracciano, che accolgono, che amano ogni giorno come Gesù. Diceva don Gallo: Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Il futuro è in questo atteggiamento, in questa scelta di vita e non nella morale del catalogo.
Chiediamo la sapienza dell’anziano Simeone: abbiamo bisogno di sapienza per vivere questo nostro tempo e non indugiare al lamento o alla nostalgia dei tempi che furono.
Chiediamo al Signore, per noi che siamo sempre proiettati sull’apparire, la sapienza che sa vedere la profondità di quel che accade nella vita. Di competenze sicuramente siamo abbondanti, di conoscenze forse anche, a noi manca la sapienza che ci costringe a rallentare per ascoltare di più.
Invochiamo per noi che siamo ripiegati sull’effimero narcisista, la sapienza che dà gusto alla fedeltà di ogni giorno per essere capaci di costruire il bene comune.
(Lc 2,22-33)