DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Lc 23, 36-43
(Fil 2, 5-11; Lc 23, 36-43)
La conclusione dell’anno liturgico ci fa sostare ai piedi della croce del Cristo per contemplarlo quale re dell’universo.
Un titolo che risuona ambiguo alle nostre orecchie sia per il fatto che rimanda al clima culturale e politico dell’epoca in cui tale festa è stata istituita (Pio XI, enciclica Quas primas, 1925), ma anche perché la liturgia cristiana non aveva mai celebrato un titolo di Cristo, piuttosto ripercorre le tappe della vita del Signore, sulle quali peraltro è impostato l’anno liturgico, accogliendo il mistero in essa manifestato.
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato sembra dare voce a queste nostre perplessità e infatti Luca mette sulle labbra dei soldati che stanno sotto la croce le stesse parole che erano risuonate all’inizio del ministero di Gesù, della sua cosiddetta vita pubblica: «Se tu sei il Cristo di Dio, salva te stesso».
Sono le parole del tentatore che ritornano nel momento più drammatico, proprio quando l’uomo è di fronte al mistero della sofferenza e della morte… perché è lì, sempre lì che siamo tentati anche noi di chiedere il miracolo, desidereremmo uscire da quella situazione ed essere preservati dalla fatica e dal dolore!
Invece Gesù, il Figlio di Dio, muore giovane. Il suo corpo giovane è appeso alla croce. Talvolta indugio a pensare quanto bene avrebbe potuto fare ancora Gesù e quante cose avrebbe ancora potuto dire, se solo avesse avuto a disposizione qualche decina d’anni in più!
Proviamo a pensare se avesse ascoltato l’invito dei soldati a scendere dalla croce e avesse indossato i vestiti dei militanti per trascinare le folle: magari al momento avrebbe potuto avere anche un certo successo, ma tutto sarebbe franato, il vangelo sarebbe finito in nulla.
Quando Luca fa parlare i due malfattori, comunemente chiamati i due ladroni, che sono crocifissi con Gesù è per condividere l’atteggiamento più umano che ci sia di fronte alla sofferenza e alla morte.
Se evitiamo evitare di cadere in quella semplificazione per la quale il primo lo chiamiamo «cattivo» e il secondo «buono», perché per Luca il registro duale è la vita: due i discepoli di Emmaus, due sono i figli del Padre misericordioso …, allora possiamo vedere nei due malfattori, l’ambiguo cammino dell’unico discepolo, il percorso della coscienza del credente che oscilla tra la fede e la sfida, tra il grido di rabbia e la preghiera.
Nel «primo ladrone» – cui solo Luca accorda la parola – prendono voce tutte le recriminazioni e le resistenze umane ad accettare la regalità di un Crocifisso, che sono la nostra resistenza ad accettare la sofferenza, la malattia e la morte. Il primo ladrone dà voce alla parte oscura e disperata della coscienza. Infatti avrete notato come pronunci le medesime parole di chi sta sotto le croci, anche lui si rivolge a Gesù dicendo: Non sei il Messia? salva te stesso e anche noi! Per lui un Messia crocifisso e abbandonato dai suoi che poco prima aveva detto: Padre perdonali perché non sanno quello che fanno! risulta un messia indecifrabile, ridicolo e senza senso. La cosa che conta di più è salvare se stessi.
Il «secondo ladrone» non si limita a zittire il compagno di sventura riconoscendo che c’è una differenza tra l’essere giusti e l’essere empi e che questa differenza ha a che fare con il timore di Dio, ma rivolge anche una preghiera a Gesù: Gesù ricordati di me nel tuo regno!
Davanti allo spettacolo della croce, Luca ci consegna l’itinerario del discepolo che dalla protesta può sfociare nella preghiera, dall’imprecazione può giungere all’invocazione del nome di Gesù, un’invocazione che non ha bisogno di molte parole per dire la verità del cuore. È sufficiente dire: Gesù ricordati di me.
E questa semplicità ha impressionato i padri e le madri del deserto che hanno sempre visto nel secondo malfattore una sorta di «patrono» per il loro cammino spirituale. Perché se è legittimo cercare di salvare se stessi, tuttavia il regnare di Gesù sulla croce chiede di attraversare la morte dell’io per trovare la vita, di passare dal regime della dittatura dell’ego, per servire il regno.
Non a caso il pensiero eucaristico ortodosso proclama che ogni fedele nell’Eucaristia proprio al momento della comunione assume l’atteggiamento del ladrone che entra nel paradiso e, con le parole del Crisostomo, dice: Non dirò questo mistero ai tuoi nemici, né ti darò il bacio come Giuda, ma come il ladrone ti confesserò: ricordati di me Signore nel tuo Regno! Ricordati di me nel tuo regno. Ricordati di noi, Signore!
Anche noi, in questa domenica nella quale la diocesi celebra la giornata della Caritas, vogliamo ricordarci di questo regno, di un regno che ha come trono la croce, come legge le beatitudini e come politica il farsi carico del dolore e della fatica dell’altro.
Forse è vero che il cristianesimo sta morendo come dicono alcuni, ma se gettiamo uno sguardo più profondo così come i profeti ci insegnano, ci renderemmo conto che piuttosto è finito un regime di cristianità, muore magari un certo tipo di cristianesimo, ma non il regno di Dio.
La chiesa nella storia, anche recente, ha subito il fascino e ha anche ceduto alle lusinghe del potere e ha stabilito con i vari Pilato di turno alleanze a dir poco equivoche finendo per confidare più in loro che nella promessa del suo Signore.
Ma dopo aver accarezzato la tentazione dell’insediamento diretto del regno di Dio sul piano del potere umano, il cristianesimo ritorna un po’ alla volta alla sua posizione originaria: ritorna al rigore del lievito, al rigore del piccolo seme.
Si è concluso un mondo che si diceva cristiano, è finito il regime di cristianità che ormai corroso e rotti gli ormeggi, va alla deriva, ma lascia dietro a sé, come diceva già E. Mounier, i pionieri di una nuova cristianità.
Pionieri di un nuovo modo di essere cristiani non si significa tornare nelle catacombe o rintanarci in una fede intimistica, ma essere testimoni di una fede paradossale, com’è paradossale che Gesù regni dalla croce.
È nel fare nostri i suoi sentimenti, come diceva Paolo, nel fare nostri i sentimenti di Cristo con il coraggio di opporci all’arroganza del potere con la stessa impotenza, con la stessa non violenza di Gesù, sapendo che nei sotterranei della storia alcuni ‘patiscono’ per la liberazione di molti, anche se i molti non ne sono consapevoli.
Lo diceva bene Kierkegaard (+ l’11 novembre 1855 all’età di 42 anni) con una immagine eloquente: Come in un grosso barile d’aringhe vi è sempre uno strato compresso e spappolato, come nelle casse di frutta quelle che rasentano i lati si ammaccano e van perdute …, così in ogni generazione esistono uomini che stanno ai margini, vittime dell’imballaggio, i quali hanno la missione di proteggere gli altri.
Credo che il cristianesimo possa avere futuro se continuiamo a fare quello che ha fatto il Signore, anche se non siamo nei luoghi del potere e del comando, ma stiamo ai lati e ai margini, forse anche vittime dell’imballaggio, perché per noi è decisivo avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.