I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Lc 24, 44-49a
(At 10, 34-48; Lc 24,44-49)
«Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34), dice Pietro rivolgendosi a Cornelio, centurione della coorte italica, potremmo dire il primo italiano con tutta la sua famiglia a ricevere il battesimo! Siamo a Cesarea Marittima dove stava appunto il quartier generale dei romani e dove Cornelio manda a chiamare Pietro. Con queste parole «sto rendendomi conto», Pietro riconosce che sta cambiando un suo modo di pensare. Prima credeva fermamente nelle radici religiose del suo popolo, credeva di avere Dio dalla sua parte, di essere nato nel popolo giusto, il migliore. L’incontro con Gesù però gli fa cambiare progressivamente il modo di pensare. Certi gesti e certe parole del Signore gli sono entrate dentro poco alla volta, e infatti quando ormai Gesù è già risorto e asceso al cielo, Pietro sperimenta che il Vangelo funziona dentro di lui come un lievito che col passare del tempo va modificando il suo modo di pensare, di credere, di ragionare. «In verità sto rendendomi conto…» dice Pietro e cambiare idea a 50-60 anni o giù di lì, non è facile per nessuno. Uno si è fatto a fatica un bagaglio di convinzioni, di certezze, fondate sulla base di esperienze e di riflessioni… e poi l’incontro con Cristo ti rimette tutto in discussione!
Ma di che cosa si rende conto Pietro? L’incontro con Gesù gli ha fatto capire una cosa apparentemente semplice: Dio è il Signore di tutti (v.36). Dio accoglie chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga (v.35). Potremmo dire che è una cosa ovvia, scontata. Certo che Gesù è il Signore di tutti! Ma non dimentichiamo che Pietro ha davanti a se un romano, un soldato e un pagano. È come se noi avessimo qui davanti una di quelle persone che facciamo fatica ad accettare: uno zingaro, un nero, un tossico …. Davvero saremmo disposti a dire con Pietro che Dio non fa preferenza di persone?
Basterebbe analizzare il nostro linguaggio, il modo di parlare e di descrivere le persone che incontriamo per renderci conto che di differenze invece ne facciamo, eccome e ci parrebbe impossibile non produrle. È iniziata in questi giorni, e direi finalmente, una campagna dei settimanali cattolici con una grande agenzia di comunicazione sul tema della lotta alla discriminazione. Potete vedere i tre manifesti che invitano a pensare e a riflettere sull’uso delle parole nei confronti degli altri. Il volto di un uomo di colore viene colpito in testa da un proiettile che consiste nella parola negro, quello di una donna rom dalla parola-proiettile ladra, quello di un ragazzo dalla parola-proiettile ciccione… il messaggio finale è: Anche le parole possono uccidere. No alla discriminazione.
Se le diciamo in astratto queste parole risultano accettabili, ma quando abbiamo, come Pietro difronte a noi una persona in carne e ossa, diventa tutto più complicato. Però possiamo almeno cercare di avere uno sguardo e un linguaggio più rispettosi, anche perché, come dice papa Francesco in maniera del tutto efficace: Parlar male di qualcuno equivale a “venderlo” come fece Giuda con Gesù. Freniamo la lingua perché le parole sono come proiettili.
Prendiamo ad esempio l’immigrazione, in genere se ne parla in termini di sicurezza, di ordine pubblico, non si sentono mai racconti di integrazione, si cavalcano gli umori della pancia della gente e si torna a scaricare sugli immigrati i mali della crisi. Non ci sono parole neutre, le parole che usiamo hanno sempre un significato e conducono da qualche parte.
Evitiamo le semplificazioni diaboliche che vengono dai pregiudizi e che si sentono urlare sulle piazze. Non è segno di responsabilità, né tantomeno significa volere il bene dell’umanità, del paese, della società dare voce alla pancia della gente, senza una riflessione critica. Questo fa comodo per spostare le paure, le nostre insicurezze sugli altri. Troppo facile, ma anche ipocrita perché non possiamo smentire con la vita il Dio che qui preghiamo come il Signore di tutti.
È ipocrita anche perché quando l’altro ci porta denaro, allora gli chiediamo l’affitto in nero, se abbiamo bisogno di una badante o colf allora stentiamo a farle un regolare contratto… Non si può manifestare in piazza contro l’altro, il diverso e poi nelle mura di casa nostra utilizzarlo senza praticare la giustizia. Sono sempre parole di Pietro al v.35: Dio accoglie chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga.
Oggi è la giornata missionaria, mentre il nostro pensiero e la nostra preghiera corrono a tutti i missionari e missionarie, religiosi e laici che portano il Vangelo nei Paesi e nei popoli che ancora non lo conoscono, per noi vivere il nostro essere missionari significa andare in senso contrario. Non andiamo in terre lontane, ma sono i popoli lontani a venire da noi, sono le altre culture ad arrivare nella nostra città.
Indubbiamente c’è la fatica ad accettare certi modi di fare, alcune abitudini vanno accompagnate ad essere più rispettose… ma lasciatemi dire una cosa semplice che forse dovrebbe essere ovvia: diventiamo più curiosi, guardiamo in volto colui che ci fa paura, perché è vero che meno si conosce più si ha paura. Lasciamoci toccare dalla curiosità di conoscere, di imparare altre culture, altri modi di pensare. Cos’è la curiosità se non la disponibilità al cambiamento, a rinnovarsi, ad aprire i nostri orizzonti, a riconoscere in definitiva che Dio, il Signore di tutti, è all’opera con il suo Spirito in modi e in tempi che non conosciamo.
Essere curiosi è un modo per essere missionari: nel senso che non c’è solo il fatto che io vado a portare qualcosa, ma anche l’altro mi viene incontro con la sua cultura, la sua civiltà dove l’amore di Dio è comunque all’opera. E io ho occhi per vedere, orecchie per ascoltare, braccia da allargare per l’abbraccio, cuore per amare ciò che l’Eterno ha già fatto prima di me e senza di me. Diamo un volto alle paure, diamo un nome. Avere paura non è razzismo, avere timori non è chiusura… ma se rimangono tali e se non sappiamo governare le nostre paure allora le nostre reazioni ci porteranno dritti all’esclusione, alla discriminazione, diventeranno violenza, magari anche solo verbale, parole come proiettili.
L’immigrazione, insieme alla crisi del lavoro, è la più grande sfida che il nostro tempo deve affrontare. La grande migrazione dell’ultimo anno, spinta dalle guerre che infiammano la sponda sud del mediterraneo, insieme all’insorgere di tremende malattie come Ebola, creano nuovi allarmi e nuove paure. Paure che non possono essere sottovalutate perché stanno plasmando la politica e la società. La paura si vince con la conoscenza perché nessuna storia ha una sola faccia e vale sempre la pena di leggerla fino in fondo.
Certo non è facile, ma ogni semplificazione è diabolica perché ci assolve sempre e getta sull’altro la colpa, la responsabilità. È un giochino facile per manovrare le masse, ma non ha futuro. Accettiamo di fare quel cammino faticoso che Gesù fa con gli Undici del vangelo di oggi, come aveva già fatto con i due di Emmaus, cioè cammina con loro, ascolta le loro paure, dà voce al loro risentimento, alle loro attese deluse e strada facendo aprì loro la mente per comprendere le Scritture (v.45).
A quale scopo Gesù fa tanta fatica? Cosa devono capire che ancora non gli ha detto? Primo che il Cristo è passato attraverso la sofferenza e la morte per aprire la via della risurrezione. Secondo, che questa via è per tutti, cominciando da Gerusalemme è destinata ad arrivare a tutti i popoli. A tutti, questo è la missione del Cristo. Di conseguenza per prima cosa, qualcosa deve morire in noi: deve morire la chiusura, deve morire l’esclusione, deve morire la paura… è solo nella morte di ciò che è istinto, difesa, paura che può nascere una nuova vita, una nuova umanità. E questo è già cominciato a Gerusalemme, ma ora deve arrivare anche a Milano… È l’amore che cambia la storia, è la curiosità che vince la paura.