DOMENICA DI CRISTO RE - Ultima domenica dell’anno liturgico - Gv 18, 33c-37
La liturgia proponendoci questo passo, una breve sezione del più ampio interrogatorio di Gesù da parte di Pilato (Gv 18, 33-37) per chiudere un anno liturgico, è come se da questo dialogo ci invitasse a guardare tutta la vita del Cristo, ad abbracciare in un punto tutto il mistero del figlio di Dio, perché è da questo incontro, da questo processo di Gesù davanti a Pilato, che scaturirà la decisione della sua condanna a morte.
Si direbbe un dialogo tra sordi: a una domanda di Pilato, Gesù risponde con un’altra domanda, sulla quale incalza un’ulteriore domanda di Pilato. E poi finalmente è Gesù che sembra voler rispondere, ma che in realtà non risponde affatto e complica le cose parlando di un altro regno, lasciando intuire di altri eserciti… E questo è solo uno spaccato degli atti processuali, se così possiamo chiamarli, perché in realtà tali non sono, gli storici del diritto divergono sulla regolarità di questo processo.
Secondo alcuni dal punto di vista del diritto romano non una delle formalità procedurali è stata osservata: non l’iscrizione e la determinazione dell’accusa, non l’accertamento dei fatti, non la pronuncia di una chiara sentenza di condanna. Dal punto di vista del diritto Gesù di Nazaret non fu condannato, ma ucciso: il suo sacrificio non fu un’ingiustizia, ma un omicidio. C’erano norme precise che imponevano al magistrato romano di non lasciarsi influenzare dalla vox populi, anzi di punire vigorosamente coloro che organizzavano pressioni in tal senso e invece… Qualcuno dice che il diritto romano si applicava soltanto ai cittadini romani, mentre per un non cittadino, come Gesù, il procuratore esercitava la semplice coercitio, la coercizione e non la giurisdizione.
E questo è un piano interessante di lettura delle cose sul quale si sono scritte pagine e pagine, e ancora se ne scrivono perché è un piano sempre attuale, come è accaduto nella recente sentenza per la morte di Stefano Cucchi. Di fronte alle sentenze ci si divide tra chi ritiene che vadano accettate. Qualunque sentenza. Tra chi ritiene che si possano demolire quando non si è d’accordo. E chi crede che si debbano accettare – perché vivere all’interno del diritto è compito di chi fa parte di una comunità – ma si possano discutere.
Perché discutere una sentenza significa anche mettere se stessi di fronte al problema. Significa anche fare i conti con le proprie paure. E la morte fa paura, sempre. Ma ci sono circostanze in cui fa più paura. Questo accade quando non è possibile comprenderne le cause, quando abbiamo la sensazione di essere vicini alla verità dei fatti, ma alla fine quella verità ci fugge. Fa più paura quando abbiamo la sensazione che al posto del morto potevamo esserci noi, nostro fratello, nostra sorella, nostro figlio o il nostro migliore amico.
Questo è un piano ed è su questo registro che Pilato si muove, ma comprende a fatica che c’è un altro registro, quello sul quale Gesù cerca di portarlo quando gli dice: Il mio regno non è di questo mondo e io sono qui per dare testimonianza alla verità. Come in ogni processo che si rispetti, l’obiettivo del giudice è stabilire la verità. Ma chi è il giudice in questo processo? Formalmente è evidente che è Pilato. Ma in realtà è Gesù che dà testimonianza alla verità. La verità non sta in piedi da sola, la verità ha bisogno di qualcuno che la testimoni, la verità è più fragile di quello che pensiamo. Appunto qui nasce la famosa domanda di Pilato che purtroppo è stata omessa nel passo di oggi, quando chiede a Gesù: Cos’è verità?
Questa è quella che Nietzsche ha definito la battuta più sottile di tutti i tempi: tì estin alétheia? Pilato non domanda la verità in termini assoluti, chiede: Cos’è verità? Pilato non fa filosofia, è un pragmatico militare in carriera e per lui ci sono altre cose che contano di più e che sono più importanti e «vere» appunto: io devo rendere conto a Tiberio Cesare, questa è la mia verità.
Pilato non è stupido, mi sembra di vederlo mentre pone la domanda a Gesù e al tempo stesso si pente di averla posta perché questo vuole dire mettere in discussione tutto, la sua carriera, la sua vita, le sue scelte, le sue priorità per stare a galla nella macchina imperiale, quello che gli ha detto la moglie… e allora sapete cosa fa? Molla lì Gesù e se ne va. Esce sulla piazza a proporre uno scambio: vi libero quest’uomo e condanniamo Barabba.
Cos’è verità, Pilato? Non ho mai amato particolarmente i termini astratti: spesso diventano come macigni da usare sempre contro qualcuno… ma se insieme al termine verità, come suggerisce Giovanni (14,6), mettiamo il nome di Gesù, i contorni diventano più definiti e meno ambigui: Gesù è la verità di Dio. In questo senso è Pilato a stare davanti a Gesù. All’inizio il procuratore prende la direzione delle operazioni: esce, interroga i Giudei, entra fa chiamare Gesù, lo interroga… se avete la bontà di andare a rileggere quell’interrogatorio vi renderete conto come per sette volte Pilato è come rimbalzato da Gesù alla folla: esce verso la folla, che sta sulla piazza perché non può contaminarsi con i pagani, e poi entra a interrogare l’accusato. Ecco plasticamente è resa l’immagine di uno che crede di intentare un processo per discernere la verità e, mentre lui viene rimbalzato dentro e fuori, in realtà è l’accusato a presentarsi come la verità stessa. E la cosa dura ben cinque ore: dal mattino presto fino all’ora sesta, fino a mezzogiorno!
«Lascia stare, sembra dire Pilato a Gesù, ti metti su una strada sbagliata. La verità non ti salva la pelle, non ti rende credibile». Ci sono altri interessi da difendere: la reputazione, l’onorabilità… la verità viene sempre crocifissa. Il destino della verità è di essere crocifissa! Fa’ i tuoi conti, sembra dire Pilato a Gesù, e vedrai che non ti conviene. Alla fine del suo agitarsi Pilato si rassegna e dopo aver fatto incoronare Gesù di spine, dopo averlo fatto frustare, lo presenta ai suoi accusatori con le parole straordinarie che confermano la verità, appunto: Ecco homo. Ecco l’uomo.
Pascal così commenta: Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme della giustizia, perché è molto più ignominioso morire per giustizia che per una sedizione ingiusta. È questo il punto. La regalità di Gesù non è una parata, un’esibizione di forza e di potere, la regalità di Gesù è vera perché assume l’ignominia di essere ucciso in nome della giustizia! È una regalità irriducibile a quella del potere mondano. È una regalità che non è oppressiva, ma salvifica. È una signoria che libera, non vuole dei sudditi, ma fratelli e sorelle. Ecco Gesù è il vero uomo, è il vero Dio.
Fin dall’inizio il Battista aveva indicato Gesù dicendo: Ecco l’agnello di Dio che porta su di se il peccato del mondo! Solo un agnello che viene da Dio può portare tutto il peccato del mondo, il peccato di tutti: il peccato dei discepoli che sono fuggiti, che hanno tradito e rinnegato… il peccato dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei che hanno fatto di tutto per eliminarlo; il peccato del popolo vigliacco… ci mancava solo Pilato, ma alla fine Gesù si carica anche del peccato del potere militare e politico…. Ecco l’uomo che come agnello porta su di sé il peccato del mondo.
Questa è la verità che rende Gesù regale.
E noi sempre a ripartire da qui, da questa verità di Gesù. Il vangelo di oggi conclude dicendo: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Torniamo sempre ad ascoltare la parola di Gesù, la sua voce. Questo è il paradosso: che alla fine, di fronte a Pilato che toglie la parola a Gesù, di fronte a coloro che lo vogliono morto, la sua parola continua a fecondare la vita. Qui è la croce, qui è la storia.