II DI PASQUA - In albis depositis - Gv 20, 19-31


audio 11 aprile 2021

Sono rimasto affascinato dal tempo sospeso in cui Tommaso ha vissuto lontano dalla comunità, un tempo sospeso senza gli amici con i quali aveva seguito Gesù. Viene facile biasimare Tommaso perché non crede subito, ma non dobbiamo essere così superficiali. Se anche solo pensassimo quanta importanza ha avuto anche per ciascuno di noi quel tempo, che consideriamo come un intervallo o una pausa, che intercorre tra eventi ed esperienze che invece riteniamo significative e importanti.

Non è tempo perso, non è ritardo… e poi su che cosa? è un tempo sospeso, abitato da mille domande, da interrogativi, dubbi, ricerche, scambi con sé stessi e con altri che magari non sono del giro.

Così Tommaso ha vissuto un tempo sospeso tra la morte e risurrezione di Gesù e la domenica successiva alla Pasqua, che è una domenica immortalata da numerosissime opere d’arte in cui vediamo Tommaso nell’intento di mettere le proprie mani nelle ferite del Risorto. Della domenica è facile custodire il ricordo, ma dei giorni trascorsi nella settimana sappiamo poco, eppure sono giorni che ci dicono molto.

Anzitutto ci dicono che possiamo prenderci del tempo: sì possiamo anche noi non avere fretta di credere subito e a tutto. Rispettiamo i nostri tempi, rispettiamo i tempi degli altri, così come la comunità ha rispettato i tempi di Tommaso.

Non è che siamo tutti come Maria di Magdala, l’abbiamo incontrata all’alba di Pasqua all’ingresso del sepolcro di Gesù e le abbiamo riconosciuto una straordinaria capacità di amare e credere nel Maestro, al punto di essere qualificata come l’apostola di Cristo, la prima a incontrare il Risorto e a portare l’annuncio ai suoi.

Amare e credere, non sempre vanno di pari passo, non sempre arrivano insieme, ed è quello che succede a Tommaso. Era un apostolo, eppure di lui dopo l’ultima cena non abbiamo avuto traccia: non l’abbiamo incontrato sotto la croce, non c’era nemmeno al momento della sepoltura, magari amava il Signore, ma per fidarsi di lui aveva bisogno di tempo. Voglio proprio vedere i segni dei chiodi e toccare con mano… Che è come dire: non raccontatemi storie, non inventate cose strane, quel Gesù che amavo è morto. Punto.

Tommaso è il discepolo sospeso nel senso che ancora non ha unito nel suo proprio intimo l’amore e la fede nel Signore. È rimasto legato a lui nel ricordo, come si ricorda un amico, così come facciamo noi quando ricordiamo i momenti belli delle nostre amicizie, ma niente di più. Ma per quanto riguarda avere fede in lui è altra cosa ancora. Non è che Tommaso non creda in Dio, tutt’altro, piuttosto è fuori dal suo perimetro mentale il poter pensare che la morte non abbia l’ultima parola, anzi se Gesù era davvero figlio di Dio doveva evitarla.

Oggi noi, come Tommaso e come tutti i discepoli di ogni tempo, siamo chiamati a compiere un atto di fede, perché, «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?», scriveva nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo scrittore polacco Jan Dobraczynski (+1994).

Non è questo il senso delle parole di Gesù quando rimandava all’immagine del bambino in braccio a sua madre o a suo padre per dire la fede? Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso (Mc 10,15). Il bambino si affida a quelle braccia, si fida che quelle braccia lo sostengono e lo avvolgono nell’amore.

Tommaso che hai seguito Gesù, lo hai ascoltato, lo hai amato, hai condiviso la tavola… ora una cosa puoi fare: non sappiamo se hai messo le tue mani nelle ferite del Cristo, ma ti sei gettato nelle sue braccia, hai creduto in lui.

Per fare questo passaggio di fede, che è un passaggio di Pasqua, occorre buttarsi nelle braccia di Cristo, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, 39enne pastore protestante ucciso il 9 aprile 1945, nel carcere di Flossenbürg direttamente per ordine di Hitler, «Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi – un santo, un peccatore convertito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale!), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano […] allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si rendono finalmente sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io, penso, questa è la fede, questa è metanoia; e così diventiamo uomini, diventiamo cristiani» (Lettere dal carcere, 21 luglio 1944).

Devi rinunciare di fare qualcosa di te stesso per uscire dalla sospensione della fede. Come ha fatto Maria di Magdala, come ha imparato a fare Tommaso, come ha fatto anche Pietro.

Il capo degli apostoli che avevamo visto piangere d’amarezza la sera del giovedì santo, incapace di accettare che Gesù si lasciasse consegnare ingiustamente alla croce, oggi la prima lettura ce lo presenta «pieno di Spirito Santo» in un contesto di persecuzione analogo a quello che aveva subito lo stesso Cristo.

Pietro e Giovanni sono appena stati arrestati dal servizio d’ordine del tempio perché annunciavano in Gesù la risurrezione dai morti (4,2) e per questo Anna e Caifa, i sommi sacerdoti, i capi del popolo e gli anziani procedono come sanno fare loro.

Lo stesso Pietro che abbiamo visto piangere dopo il rinnegamento, ora lo incontriamo pieno di Spirito santo. Cosa è successo? Anche lui ha attraversato un tempo sospeso prima di giungere ad essere descritto come succede al v. 13 del libro degli Atti che potremmo considerare come il versetto centrale della narrazione, dove si dice appunto che le autorità hanno visto la franchezza di Pietro e di Giovanni, che è il dono dello Spirito santo. La franchezza, in greco parresìa, cioè la risposta alla sospensione, il coraggio e la libertà insieme, che non sono mai arroganza, né supponenza, perché scaturiscono dalla fede in Gesù risorto.

Tant’è che i sommi sacerdoti e gli anziani guardano a Pietro e a Giovanni come a persone affatto pericolose perché erano semplici e senza istruzione, letteralmente illetterati» e «idioti». Due qualifiche che vanno insieme, perché l’idiota in quanto illetterato nell’ellenismo era la persona senza cariche pubbliche, per cui Pietro e Giovanni sono considerati talmente grezzi e ignoranti che non avrebbero mai avuto un posto nelle istituzioni pubbliche. Eppure la fede può molto.

Però, c’è ancora una cosa che dice il v.13 ed è il fatto che la parresìa di Pietro e di Giovanni stupisce le autorità che li riconoscono come quelli che erano stati con Gesù, che è una delle più definizioni più intense di chi sia il discepolo, uomo o donna, il discepolo è colui che è stato con Gesù. Anzi, qui abbiamo un imperfetto indicativo che indica l’azione di un momento che continua, per cui dovremmo tradurre: quelli che continuavano a stare con Gesù.

Ma le autorità non potevano comprendere questo, per loro Gesù era morto e secondo loro i suoi discepoli non potevano continuare a stare con lui, che era invece l’esperienza e la fede di Pietro e di Giovanni che sperimentavano di continuare ad esserlo nonostante il rinnegamento, la paura e la loro poca fede, perché Gesù li ha amati e continua ad amarli.

Gesù non rinfaccia i loro pur evidenti peccati: vergogna, tradimento, rinnegamento, paura… sono stati dei vigliacchi di per sé. Ma il Signore avvolge della sua tenerezza e del suo amore le ferite di quell’amicizia e quell’affetto che li avevano legati insieme, perché vede le cose dalla prospettiva veramente rivoluzionaria che è quella della risurrezione.

Gesù risorto che si mostra con le ferite della crocifissione è la vera rivoluzione che ci libera. Perché se imparassimo a vederci e a guardarci, a vivere insieme e a rispettarci a partire dall’orizzonte della vita che non muore, sapremo dare importanza ai piccoli gesti che costruiscono giorno per giorno una convivenza umana degna di tale nome.

Invece chiusi come siamo sul nostro particolare, sui nostri meschini interessi di parte, di immagine, di potere e di dominio continuiamo a farci del male, a discriminarci per l’appartenenza a un paese, a un’etnia, per una diversità e a procurare ferite a quel corpo di Cristo che è il povero, il malato, il carcerato, il profugo, l’anziano solo, l’affamato, il perseguitato, la donna sfruttata, il bambino violato…

La vera rivoluzione, la forza eversiva della storia è la risurrezione e forse per questo facciamo fatica a credere e rimaniamo come sospesi. Cristiani sospesi che ancora non si decidono a credere e ad amare.

Pietro ha preso coraggio, Paolo ha rivisto il suo modo di essere e di pensare, Tommaso ha trovato la pace, quella pace che Gesù risorto può donare. Ma per vivere così occorre davvero tuffarsi nell’oceano di Dio, buttarsi così come noi ci buttiamo nel mare sapendo che le acque si apriranno per accoglierci perché certe cose bisogna viverle prima per comprenderle poi.

(At 4, 8-24; Col 2, 8-15; Gv 20, 19-31)