V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 10, 25-37


(Dt 6, 1-9; Rm 13, 8-14; Lc 10, 25-37)

In queste domeniche la liturgia della Parola ci fa ripercorrere i grandi doni di Dio manifestati in Cristo: il dono di Gesù come pane per la fame di senso del mondo, domenica scorsa; il dono di Gesù come Spirito di rinascita per Nicodemo nella loro conversazione notturna a Gerusalemme, la domenica precedente; e oggi il dono di Gesù come il samaritano del mondo.

Non vi suoni strano se vi parlo di Gesù come «samaritano del mondo», perché il Signore rispondendo alla domanda di quel professore che lo sta interrogando seriamente sulla vita e su ciò che conta davvero, non gli dà semplicemente un consiglio sul comandamento dell’amore, ma rispondendo alle sue domande con altre domande lo accompagna a vedere cosa fa l’Eterno con l’uomo nel corso della storia, ovvero gli racconta di un Dio che si china sull’uomo ferito e senza speranza, di un Dio che preso a compassione si prende cura di noi. La compassione, questo sommovimento interiore, che non è semplicemente avere «le farfalle in pancia» come si suol dire, è in realtà l’empatia di Dio con noi.

Purtroppo una certa lettura romantica, e se volete anche ingenua che perdura ancora, ci fa leggere questa parabola come la parabola del buon samaritano, dove aggiungendo quell’aggettivo che non riscontriamo nel testo evangelico, noi compiamo un’operazione che disinnesca la portata deflagrante delle parole di Gesù.

Non si tratta di un “samaritano buono” perché lui sì che è bravo, mentre gli altri samaritani sono cattivi…

Da sempre le persone dividono il mondo in buoni e cattivi, normali e anormali… Ovviamente in questa semplificazione i buoni sono il mio gruppo, la mia classe sociale, la mia cultura, la mia religione…. I buoni sono belli ed efficienti, i loro genitori e i loro nonni vanno fieri di loro. I cattivi sono fuori, sono altri: stanno in prigione, per strada, sono alcolizzati, matti… La paura separa quei due gruppi.

Mi sembra che Gesù ci aiuti invece a fare un passo in profondità nell’animo umano. Se il sacerdote percorre quella medesima strada da Gerusalemme a Gerico, che è immagine della vita, della storia del mondo, e che è percorsa dal levita, un altro esperto di cose religiose, e costoro vedono e passano oltre, non lo fanno perché sono cattivi o meno bravi degli altri… c’è qualcosa di più profondo che va al di là della buona o cattiva volontà che li rende incapaci di prendersi cura di quel povero disgraziato.

Chi è capace di guardare negli occhi quel disperato che sta lì abbandonato e mezzo morto sulla strada? E guardate che non era una strada a due corsie, se avete avuto modo di provare a percorrere anche solo per un breve tratto la discesa da Gerusalemme a Gerico attraverso il deserto, vi rendete conto che non si poteva far finta di non vedere, ci inciampi in uno che sta lì abbandonato per terra!

Ebbene chi è capace di guardare negli occhi quell’uomo, o se volessimo arricchire la narrazione evangelica, chi è capace di ascoltare il suo grido?

In tutta la parabola il poveretto non parla, non dice nulla, subisce solamente: viene picchiato, viene abbandonato, viene appunto guardato e scansato.

A me viene da pensare: se almeno uscisse un lamento dalla bocca di quel poveraccio, se non un grido di aiuto.

Ecco penso al grido di quell’uomo che se non poteva farlo con la bocca, almeno i suoi occhi incrociandosi con lo sguardo di chi gli passava accanto avranno gridato il suo bisogno di aiuto!

Solo il Samaritano fu capace di guardare negli occhi quell’uomo e di ascoltare il suo lamento e si commosse. Perché? perché lui stesso viveva quella condizione, la sua vita era difficile, e non solo la sua, ma quella di tutti i samaritani.

Noi facciamo fatica a comprendere la distanza che ci poteva essere tra un ebreo e un samaritano contemporanei di Gesù, ma ci basti dire che in quegli anni rivolgersi a uno dicendogli: «sei un samaritano», come un giorno accadde anche al Cristo, non era certo un complimento.

Eppure i samaritani erano considerati, scusate il termine ma rende l’idea, «bastardi» perché costituivano una popolazione che durante la prima deportazione assira (721 a.C.) si era unita ad alcune popolazioni pagane che erano state invece importate a forza per sostituire i deportati. Così che quando Israele torna dall’esilio di Babilonia si deve confrontare con una popolazione “spuria” con la quale sarà sempre difficile trovare un punto d’incontro. L’incompatibilità si era andata acuendo ed era ancora viva al tempo di Gesù la ferita della distruzione del tempio di Samaria non certamente ad opera dei pagani, ma bensì dei Giudei (sotto Giovanni Ircano) nel 123 a.C. (che sarà uno dei temi nel dialogo con la Samaritana).

C’era un muro tra le due popolazioni, anche se numericamente i samaritani non furono mai numerosi (ancora oggi vicino a Nablus c’è un villaggio con poche centinaia di abitanti), c’era un muro di separazione di cui non si parla nel vangelo, ma che si tocca con mano, un muro come tanti ancora gli uomini ne costruiscono a difesa, a protezione, a separazione gli uni dagli altri.

Ecco la grande novità che Gesù ci annuncia: lui è l’immagine di un Dio che si fa samaritano del mondo. Quel Dio che paradossalmente è fragile perché lo dimentichiamo, lo tradiamo, quel Dio che abbandoniamo e che a volte nella vita vorremmo come morto, ebbene proprio quel Signore lì così grande eppure così fragile, si prende cura di noi.

Troppo a lungo ci hanno riempito la testa del Dio onnipotente che dall’alto del suo trono impartisce ordini agli uomini.

Gesù ci annuncia e testimonia un Dio che si fa solidale, anzi egli stesso diventa vulnerabile indicandoci così la strada della gioia, della pienezza di vita.

Non è colpa di Dio se esistono sofferenze, muri, divisioni … lui ci ha dato un’intelligenza e un cuore, ci ha donato delle mani e dei piedi perché possiamo fermare la corsa verso gli onori, verso l’efficienza, verso l’eccellenza … tutte queste cose non fanno altro che fomentare rivalità e guerre.

Noi non possiamo fare molto per abbattere i muri che circondano la Palestina, che dividono Messico e Stati Uniti, la Corea, Cipro, l’Irlanda… ma possiamo imparare da Gesù ad ascoltare il grido di tutti i poveri. Apriamo i nostri cuori ai deboli che gridano e allora la pace sarà di nuovo possibile.

Il problema è che fuori di qui, anziché rivolgerci al Dio umile e nascosto, vulnerabile preferiamo batterci per una gloria e degli onori che ci seguono nella terra dei cimiteri.

Il Dio di Gesù invece è nascosto nella regione più profonda e intima dei nostri cuori. Si rivela come un soffio delicato, la voce interiore della nostra coscienza, proprio quella coscienza che ci lega a tutti gli uomini e donne del nostro mondo.

È proprio per il fatto di essere sceso nel profondo di questa coscienza e non per un romantico senso di bontà, che il samaritano della parabola ci viene indicato da Gesù come un’icona dell’amore.

Qualcuno un giorno chiese a Martin Luther King se secondo lui sarebbero sempre esistiti gruppi che si credono superiori, migliori, l’élite e che disprezzano gli altri per convertirli e integrarli nel loro mondo. «Sì, rispose Martin Luther King, a meno che tutti noi non riconosciamo, accettiamo e accogliamo le ferite che sono dentro di noi, le nostre paure e le nostre tenebre, tutte fonti di odio».

Arriviamo a diventare più umani non attraverso i grandi momenti di successo e gli applausi scroscianti, non sfuggendo la realtà nelle illusioni del potere, ma accogliendo la nostra più vera e profonda fragilità.

Allora i nostri cuori di pietra si trasformano in cuori di carne, una trasformazione che non consiste nel piangere sull’altro, ma nell’aiutarlo ad alzarsi e a camminare con lui, proprio come fa il Cristo con ciascuno di noi.