III DOPO PENTECOSTE - Mt 1, 20b-24b


(Gen 3, 1-20; Rm 5, 18-21; Mt 1, 20-24)

Dopo aver celebrato, domenica scorsa, la bellezza della creazione, oggi la lettura della Genesi ci mette di fronte all’emergere del peccato dentro il dono di Dio. Non si tratta del problema del male che incombe come questione in sé, ma è la costatazione che in ciò che è Dio ha fatto come amore e bellezza, viene fuori un mondo dove sperimentiamo quello che noi chiamiamo «peccato». Il peccato in ebraico si dice hattat che significa letteralmente mancare il bersaglio, che è come dire che l’uomo posto nel giardino di Dio, in qualità di ospite di Dio si trova a sbagliare obiettivo, si trova nella condizione di porre pensieri e azioni fuori luogo. La Genesi non si interroga e non propone una riflessione astratta sul perché e sul come sia possibile che l’uomo, collocato nella creazione di Dio ad un certo punto si metta a dubitare del suo creatore. La Genesi ci dice che è così. Siamo creature, «creaturus» è participio futuro, siamo cioè un continuo divenire. E come tali siamo sospinti a non accontentarci di tutti gli alberi del giardino che abbiamo a disposizione, ma a voler mangiare di quell’unico che ci è proibito: l’albero della conoscenza del bene e del male. Perché non accettiamo limiti, non ci fanno piacere.

Il dramma della creatura sta qui, siamo desiderio, lo dice il termine stesso, «de-sidera» che ha a che fare con le stelle: i desideri sono intrisi di stelle, il nostro sguardo è insoddisfatto, vogliamo andare sempre oltre, non accettiamo facilmente limiti imposti da altri, e tantomeno da Dio. Insomma nell’azzurro del cielo di Genesi si addensano intense nuvole!

Le nuvole sono quelle del sospetto introdotto da un animale malizioso – un serpente che parla! – e che inocula appunto il veleno in maniera astuta: È vero che Dio ha detto di non mangiare di alcun albero del giardino? La domanda è apparentemente innocua, ma insinua il dubbio su Dio, sul fatto che Dio voglia così bene all’uomo da nascondergli qualcosa. Se Dio tiene nascosto qualcosa è perché ha un suo interesse, magari sta facendo il doppio gioco!

Questo è un linguaggio che appartiene al mito, la colpa evidentemente non è del serpente: per un popolo abituato a camminare per generazioni nel deserto, il pericolo più grande era dato appunto dal veleno dei serpenti che si mimetizzano nella sabbia. In realtà la questione avviene tutta nella coscienza umana: il dubbio, anzi il sospetto che l’Eterno in definitiva non sia poi quell’amore che dice di essere. Altrimenti, perché non devo mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male?

Ecco l’insinuazione del serpente, che è il sospetto che si affaccia alla nostra coscienza: Il giorno in cui ne mangiaste sareste come Dio, conoscendo il bene e il male! Se Dio vuole tenere per sé il bene e il male, se decide lui cosa è bene e cosa è male, limita la mia libertà, frustra il mio desiderio di realizzazione e di felicità. È il primo tempo del peccato: il sospetto, la tentazione mi fanno dubitare di Dio. Al punto che Dio viene percepito come il limite, come l’ostacolo principale alla mia realizzazione!

Una volta che la tentazione è stata accolta dall’uomo e dalla donna, ecco il secondo momento, cioè la caduta, l’azione concreta. E l’azione viene ricondotta a un gesto umanissimo qual è quello del mangiare. Nulla di spaventoso, niente di eclatante. Prendono e mangiano. A questo punto uno si aspetterebbe che quanto promesso dal serpente accada, invece si aprono loro gli occhi e si accorgono di essere nudi… diventano ridicoli al punto da cercare di nascondersi da Dio in mezzo agli alberi del giardino.

La finezza del narratore si esprime in tutta la sua bellezza: noi sappiamo cosa è accaduto, invece sembra che Dio sia all’oscuro di tutto tant’è che si mette a cercare l’uomo e grida: Dove sei? Ma come se è Dio, non dovrebbe sapere tutto? C’è una sottile ironia in tutto il racconto che dice tanto della nostra condizione. Volevano diventare come Dio, avevano un desiderio grande come le stelle e si ritrovano a provare vergogna, a scoprire il disagio della propria nudità: nulla di nuovo, erano già nudi, ma ora è tutto differente.

Cedendo al sospetto che il Signore in qualche modo sia l’antagonista della loro libertà Adamo e Eva non solo snaturano il rapporto con lui, ma anche il rapporto tra di loro si inquina e distrugge la fiducia della loro relazione: è stata lei, è stato lui… Il peccato nei confronti di Dio introduce un guasto nella relazione tra l’uomo e la donna e in quella tra gli esseri umani e la terra. Ora ci si nasconde agli occhi di Dio, agli occhi gli uni degli altri e il giardino, luogo della manifestazione della bellezza dell’Eterno, diventa il luogo dell’opacità e della doppiezza.

Le parole che descrivono il terzo tempo del peccato, ovvero le conseguenze che esso introduce nel mondo, non dicono il castigo di Dio, come se il lavoro, il partorire, la morte stessa fossero la punizione di un Dio arrabbiato e deluso, ma dicono la realtà concretissima che si produce ogni volta che il peccato entra nella vita e nella storia umana.

È come se il Signore ci dicesse: guardate che voi facendo così state distruggendo il giardino molto più di quanto immaginiate. Le sue parole hanno un po’ la funzione delle «istruzioni per l’uso», come quelle che troviamo scritte nelle confezioni delle medicine o delle macchine, il «bugiardino». Non ci trasmettono un senso di colpa in più, ma quelle parole sono un atto d’amore, un avvertimento. Una volta che siamo stati avvertiti sulle conseguenze di un cattivo uso, non potremo più dire: Non lo sapevo… non consideriamo queste parole come una punizione aggiuntiva che viene da Dio. Dio non punisce il peccato.

Anzi, spiace che la lettura si arresti al v.20, perché a quello successivo recita così: Dio cucì all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì. Questo dice la cura di Dio e non la sua rabbia. Dio non punisce il peccato. Il peccato si punisce da solo. Piuttosto la donna rivive in senso disperante l’angustia delle sue gravidanze e del parto, come pure il proprio desiderio e attrazione verso l’uomo che incontra in lei un gusto malsano di seduzione e lei incontra in lui l’affermazione di un dominio che la sottomette e l’assoggetta con violenza. Così anche la morte non è il castigo di Dio, era già prevista nella natura umana proprio perché Adamo è tratto dalla terra, ma dopo il peccato non sarà più un semplice fenomeno biologico di transito da un modo di esistenza a un altro, ma diventa esperienza angosciosa e disperata di fine, di salto nel buio, di separazione definitiva.

Chi ci salva da questa condizione? Chi spezza il cerchio dei desideri frustrati e delle nostre ambizioni?

Paolo nella lettera ai Romani scrive che se c’è una solidarietà nel peccato, perché l’esperienza di Adamo è la condizione di ogni uomo, c’è però anche una solidarietà dove sovrabbonda la grazia, ed è la solidarietà in Gesù che viene a cercare l’uomo, ogni uomo. Come scrive un grande padre spirituale della Chiesa greca, Nicola Cabasilas: «Dio spinto dal suo folle amore per l’uomo, inizia a cercarlo tra gli alberi del giardino e finisce per trovarlo sul legno della croce».

Ed è lì infatti che conosciamo fino a che punto arriva la solidarietà di Gesù, il cui nome significa come dice l’angelo a Giuseppe «Dio salva il popolo dai peccati» ed è per il suo amore che non abbiamo più bisogno di nasconderci, né di vergognarci.