IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 51-59


Conosciamo bene l’obsolescenza programmata: si tratta di una strategia volta a definire il ciclo vitale di un prodotto in modo da limitarne la durata in un periodo prefissato.

Se un elettrodomestico durasse molti anni, evidentemente il mercato rischierebbe di essere saturo nel giro di poco tempo. Ecco allora che non solo si prevede di garantire modelli innovativi più frequenti in un mercato che vive, appunto, di domanda e offerta, ma – ed è un reato –  si predetermina la loro durata… e lo scopo è evidente.

Ecco se noi dovessimo domandarci con le parole della Scrittura che abbiamo ascoltato: di che cosa si nutre l’uomo oggi? Qual è il nutrimento per l’anima dei nostri contemporanei? Potremmo dire sicuramente di tante cose e diverse… comunque non si tratta mai di qualcosa di definitivo, che dura per sempre. C’è una sorta di obsolescenza programmata anche in ciò che circonda la vita personale e sociale, come se avessimo bisogno continuamente di cose, di esperienze, di sensazioni diverse da accumulare, ma nemmeno da accumulare, semplicemente da sfruttare, da utilizzare per poter sentirci vivi.

Per questo le parole di Gesù suonano un po’ in controtendenza: vivere in eterno, vivere per sempre è possibile, dipende da cosa mangi, dove il mangiare è metafora del nutrimento dell’anima, del nutrimento del nostro spirito, della nostra mente e del nostro cuore.

Cosa mangiamo oggi? Appunto cose dall’obsolescenza programmata. Finita una, ce n’è subito un’altra. Soddisfatta la prima proposta, ne arriva una migliore… e così via. Anzi se non siamo attenti e con un poco di spirito critico e autocritico, viviamo con questo atteggiamento anche la vita di fede, la vita spirituale dove è facile consumare esperienze, servirsi di tecniche, vivere di sensazioni a proprio uso e consumo… alla ricerca di qualcosa che poi verrà soppiantata da un’altra.

Gesù ci propone un cambiamento di paradigma. Le sue parole rimandano alla metafora del mangiare e del bere per dire con cosa nutriamo le profondità della nostra vita: La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. E poi rincara: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

È chiaro che noi andiamo a pensare al sacramento che stiamo celebrando: stiamo vivendo il memoriale dell’ultima Cena e faremo nostre le parole di Gesù sul pane e sul vino che sembrano riecheggiare anche in questo capitolo 6 di Giovanni.

Ma prima ancora di istituire un sacramento, prima di definire le parole e i gesti che lo costituiscono, Gesù compie un gesto esistenziale. Sarà per questo che Giovanni ne parla al cap. 6 e non durante il racconto della passione come fanno i Sinottici. Il rischio del ritualismo è sempre in agguato. L’abitudine, la ripetitività… non aiutano e forse già la comunità di Giovanni correva questo rischio di fare la Cena del Signore, di mangiare e bere sacramentalmente il corpo e il sangue di Cristo, ma poi nella vita di ogni giorno nutrirsi tranquillamente di altro, di cose dall’obsolescenza programmata!

Gesù è pane, Gesù è vino nel senso che mangiare e bere di lui vuol dire lasciarsi raggiungere dal suo dono, dal suo modo di vivere, dal suo modo di vedere le cose, le persone, dal suo modo di amare e di perdonare, dal suo modo di pregare. Che è la missione di tutta la vita.

Mangiare del Cristo è una bella metafora per dire cosa può fare il Signore con noi che siamo razionali convinti che capendo di più siamo più uniti a Cristo. Gesù facendosi carne e cibo, sangue e bevanda ci dona un’esperienza mistica, nel senso che prima di capire, prima dei concetti possiamo essere presi da Dio, presi da Cristo, trasformati da lui. Perché come dice s. Agostino se nell’atto di mangiare il nostro corpo metabolizza il cibo e ne trae proteine, vitamine… mangiando di Cristo accade il contrario, vale a dire che possiamo essere trasformati da lui e in lui resi un solo corpo.

Era questa la comprensione dei discepoli nell’Ultima cena? Non lo sappiamo, perché non sappiamo nemmeno cosa avessero compreso della sua vita, del suo ministero… o meglio non è tanto questione appunto di comprendere perché non è difficile da capire, è difficile credere che vivere così sia giusto, che darsi via come il pane sia esagerato, che versare il proprio sangue per ciò in cui si crede sia fanatismo…

Paolo chiama quella tavola la mensa del Signore o, come scrive al cap.11 la Cena del Signore. Certamente per dire che era l’ultima di Gesù, ma anche per marcare la differenza con le nostre cene. Perché ditemi voi chi inviterebbe qualcuno a una cena così? Una cena scarna, povera, fatta di pane e di vino. Se fosse una delle nostre cene avremmo preparato diversamente!

Paolo, Giovanni, Matteo, Marco e Luca invece ci hanno trasmesso proprio questo: Vuoi amare Cristo? Vuoi conoscere Cristo? Mangia e bevi di Gesù e diventa pane e vino a tua volta. La carne di Gesù, il sangue di Gesù sono un dono per noi.

Non è immediato né automatico che mangiando e bevendo di Cristo, partecipando alla sua Cena diventiamo magicamente come lui. Non dimentichiamo che anche Giuda era seduto a quella cena e ha mangiato con gli altri.

E a pensarci bene, questa è una cosa bellissima che mai nessuna commissione liturgica si sarebbe mai sognata di dire né di fare. Già questo ci fa capire che non stiamo facendo una cosa solo umana, una bella funzione tra persone che se la raccontano, no!

L’ufficio liturgico della curia avrebbe impedito a Giuda di partecipare, così come oggi le chiese scomunicano chi non aderisce a una visione della teologia eucaristica, a una prassi ecclesiale, a una disciplina morale… dovremmo chiederci se questa non possa essere una grave infedeltà alla Cena del Signore.

La Cena è del Signore, non è mia, né di alcun altro. Gesù l’ha aperta a tutti, siamo noi che la delimitiamo con categorie escludenti.

Ogni volta che celebriamo dobbiamo chiederci: dov’è Giuda? Non ci chiediamo solo se facciamo tutto in modo che ci sia Gesù, ci dobbiamo domandare anche dov’è Giuda, nel senso che dobbiamo avere una tavola aperta a tutti coloro che cercano senso, significato, motivazione nella vita e che sono stanchi delle cose dall’obsolescenza programmata.

Non solo, ma c’è anche una questione che assume un’importanza sempre più grave nel futuro. Mentre noi cattolici celebriamo qui in questa chiesa la Cena del Signore, a pochi metri da qui celebrano la cena del Signore la chiesa anglicana, la chiesa protestante, più in là le chiese ortodosse… Chiese che tra di loro non si accolgono: sono tutte tavole separate sulle quali diciamo di celebrare la “Cena del Signore”, ma possiamo davvero pensare che Gesù sia disposto a celebrare con i suoi discepoli di oggi tutte queste Cene separate?

Lui che nella Cena del giovedì santo ha condiviso il pane e il vino con Giuda, con Pietro che di lì a poco lo rinnegherà tre volte e con tutti gli altri che fuggirono e lo lasciarono solo, potrebbe accettare di sedersi a una mensa dalla quale, nel suo nome, vengono esclusi altri cristiani? Perché la Cena di Gesù così inclusiva è diventata, invece, esclusiva in molte chiese?

Non siamo in condizione di testimoniare il dono che riceviamo. Non possiamo ripetere le parole di Paolo Noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

Purtroppo da quasi mille anni esiste un regime di apartheid eucaristico tra i cristiani d’Oriente e quelli d’Occidente e da 500 anni tra cattolici e protestanti… tutti in realtà, e non dovremmo mai dimenticarlo, siamo ospiti dell’unico Signore e da questa consapevolezza l’ospitalità eucaristica non è in primo luogo quella di una chiesa nei confronti di cristiani di altre chiese, bensì è l’ospitalità di Gesù nei confronti di tutti coloro che, a qualsiasi chiesa appartengono, appartengono anzitutto a lui e vogliono e decidono di essere come lui.

Perché questa è la sfida vera: essere come lui, rimanere in lui, come dice Giovanni. Dove il rimanere non è un atteggiamento statico di immobilismo rigido. Mi arrabbiavo quando le catechiste spiegavano ai bambini il mistero della comunione con espressioni del tipo: Gesù entra nel tuo cuore!

Il rimanere di Gesù in noi è dinamismo: ciascuno di noi rimane in Gesù nella misura in cui viviamo come lui, nel momento in cui amiamo come lui, perdoniamo come lui, accogliamo come lui.

Nella teologia antica si diceva che il prete era l’alter Christus ovviamente per indicare il ruolo del capo, del Cristo che guida e che fa da pastore attraverso il presbitero della Chiesa.

Oggi forse dovremmo riconsiderare che questa missione viene affidata a tutti, a prescindere dal ruolo che possiamo avere nella Chiesa, perché nel momento in cui mangiamo e beviamo alla Cena del Signore e lui prende dimora in noi, Gesù vive per sempre in noi e con noi, perché a nostra volta diventiamo dono per il mondo.

(Pr 9,1-6; 1Cor 10,14-21; Gv 6,51-59)