VI DOPO PENTECOSTE - Gv 19, 30-35
L’immagine del Crocifisso con le braccia stese e inchiodate al legno come la lettura del vangelo di Giovanni ci suggerisce è diventata nel tempo l’icona più emblematica del cristianesimo. Ogni epoca storica è andata via via sottolineando alcune caratteristiche più rispondenti alla sensibilità del tempo, per cui se all’inizio addirittura non era consentito raffigurare il Cristo e tantomeno Crocifisso e ci si fermava a simboli come il pesce o il pastore… Nel medioevo lo si dipingeva e lo si scolpiva inchiodato alla croce, ma vivo e vestito con gli abiti sacerdotali.
Sarà Francesco d’Assisi a promuovere una spiritualità delle ferite della croce, delle stimmate e della diffusione della via crucis. Il rinascimento poi preferiva scolpire Crocifissi capaci di trasmettere la morte con grande umanità, ma con grande bellezza e serenità (come nel crocifisso che sta innalzato sopra l’altare).
Nel 1600 prevalse invece la drammaticità della passione e della morte di Gesù, anche perché dava voce alla sofferenza del popolo provato dalle pestilenze, dalle guerre e dalle gravi ingiustizie e favoriva l’identificazione e la devozione alle sofferenze di Gesù, alimentando sentimenti di sopportazione e di rassegnazione per ciò che si pensava non si potesse cambiare.
Per contro la riforma protestante non volle se non il nudo segno di croce: la croce è vuota perché Gesù è risorto! Se avete seguito il viaggio di papa Francesco in Armenia avrete avuto modo di vedere la venerazione che ha quel popolo per il Khachkar, la tipica croce di pietra simile a quella latina, che ha il trifoglio raffigurato sugli angoli dei quattro bracci, simbolo della Trinità. Gli angoli fioriti trasformano la croce, simbolo nel quale il popolo armeno si è identificato, in messaggio di speranza e di vita: gli angoli e gli spigoli della morte sono trasfigurati in foglie vive.
È con questo bagaglio di storia e di significati che noi guardiamo oggi alla croce di Gesù. Ma la parola di Dio che in queste domeniche ci sta facendo compiere un percorso lungo la storia della salvezza, ci chiede di leggere il mistero della croce attraverso la prospettiva di Mosè.
Nel cap. 24 di Esodo incontriamo Mosè prima nella piana davanti al Sinai a leggere il libro della Torah, chiamato libro dell’alleanza. E poi sul monte Sinai a ricevere le tavole di pietra che io ho scritto, dice Dio, per istruirli. Mosè riceve l’insegnamento, in ebraico appunto Torah, perché il codice dell’alleanza è un segno, segno e insegnamento hanno la stessa radice… e comunque è Dio che la dona, non si tratta di leggi naturali scritte nel codice genetico dell’uomo.
Sono parole di alleanza incise nelle tavole consegnate da Dio a Mosè per dire l’alleanza come iniziativa di Dio, come dono dell’Eterno che tra l’altro non venne dato in terra d’Israele, perché i popoli del mondo non avessero motivo di dire: Noi non l’abbiamo accettata perché essa fu data nella loro terra. Questo è interessante perché vuol dire che è un’alleanza per tutti.
Ed è in questa prospettiva di alleanza che noi siamo invitati a guardare la croce di Gesù, anch’egli crocifisso fuori dalla città, come a sancire un’alleanza universale. È guardando Gesù che anche noi possiamo dire: è il compimento! In lui c’è tutta la storia, tutta l’umanità, di ieri, di oggi e di domani.
Guardando la croce ancora oggi per molti è più facile e spontaneo riconoscervi il segno del dolore, della morte, del sacrificio. Ma di quale sacrificio stiamo parlando? Se la morte di Gesù fosse un sacrificio di espiazione, dovremmo chiederci chi lo condanni ad espiare. È l’ira di Dio che deve essere placata? Ma Dio non è un Padre buono e misericordioso?
La narrazione di Giovanni, che era lì sotto la croce e ne dà testimonianza, dice che la morte di Gesù rimanda appunto a quell’alleanza di cui era simbolo l’agnello pasquale al quale non doveva essere spezzato alcun osso, come aveva fatto Mosè nel celebrare la pasqua con il popolo liberato dalla schiavitù.
Il fatto che Mosè sparga il sangue in parte sull’altare – che rappresenta Dio – e in parte sul popolo, dice l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Noi siamo abituati a collegare il sangue solamente con la morte, ma nella concezione ebraica il sangue è vita. Quindi questo patto in cui vengono aspersi entrambi i contraenti (il popolo e Dio, rappresentato dall’altare) è un’alleanza di vita proprio perché contratta col sangue. Così come il banchetto solenne che segue celebra la gioia della vita e non la paura dell’ira di Dio!
Tra Dio e gli uomini infatti si parla di un’alleanza e non di un semplice contratto o di una convenzione come siamo abituati a fare tra di noi, si parla di un’alleanza celebrata intorno alla tavola. È questo forse il contributo più originale del pensiero ebraico alla storia religiosa dell’umanità. Infatti ancora oggi noi parliamo di «antica e nuova alleanza», di «primo e nuovo testamento» ed è in questo senso che possiamo dare spessore al significato del sacrificio: non è un modo per sciogliere la colpa, non faccio sacrifici per saldare i miei debiti con Dio, ma celebriamo questa eucaristia nella quale morendo per noi, Gesù ci attesta che Dio si allea con noi, Dio decide di stare dalla nostra parte.
E noi cosa dobbiamo fare in questa alleanza? Qual è la parte che compete a noi? La risposta ci viene dalle parole stesse del popolo, dopo che Mosè ha terminato di leggere il libro dell’alleanza: «Quanto ha detto il Signore noi lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Curiosa questa risposta, perché mette prima il verbo eseguire e poi l’ascoltare! Com’è possibile che venga prima il fare e solo dopo l’ascoltare e non viceversa, come sarebbe più logico?
Forse perché la fede è proprio fidarsi. Mi fido di Dio e allora eseguo ciò che mi dice di fare. In realtà quel gruppo di tribù che fatica a sentirsi popolo, a sentirsi comunità, ha toccato con mano l’amore di Dio per il fatto stesso che lui li ha fatti uscire dall’Egitto e solo dopo questa esperienza gratuita d’amore il Signore chiede l’osservanza della Torah. La legge viene dopo, prima c’è un atto d’amore gratuito ed è per questo che io mi posso fidare di Dio e posso corrispondere all’amore che mi dona.
Se ci spostiamo sotto la croce, quando l’apostolo Giovanni sente Gesù pronunciare quelle parole: «Tutto è compiuto» e vede il sangue e l’acqua uscire dal suo cuore… si rende conto che qualcosa è giunto appunto a compimento e che qualcosa di nuovo sta iniziando!
Si compie una volta per tutte la questione dei sacrifici: con la morte di Gesù non c’è più bisogno del sangue degli animali per sancire l’alleanza tra Dio e l’umanità. Perché la parola stessa di Dio si è fatta uomo, il sangue di Dio scorre nelle vene del Cristo.
Ed è proprio con lui che inizia la «nuova» alleanza. In che senso è nuova? Se noi andiamo a leggere nei vangeli tutte le volte che Gesù usa la parola sacrificio, lo fa per escluderlo. Apostrofa così i farisei, citando Osea: «Andate e imparate che cosa vuole dire: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13 e 12,7)! Gesù celebra la sua alleanza a tavola con i peccatori per raccontare loro la misericordia di un Dio che non ha bisogno di sacrifici. Proprio dove massima doveva essere la separazione tra l’Eterno e i peccatori, egli realizza la massima prossimità. Dove l’uomo religioso impone la giustizia retributiva, che in qualche modo il sacrificio provvede a sistemare, Dio irrompe con l’amore misericordioso.
Se la croce fosse sofferenza e morte come un sacrificio per espiare, voluto da Dio per trovare soddisfazione all’offesa ricevuta a causa del peccato dell’uomo, tradiremmo il dono di Gesù. La croce è l’esperienza di un amore che va fino in fondo e che per questa sua fedeltà, porta su di sé gli effetti di sofferenza, di morte e di delirio di quanti accecati respingono il suo amore incondizionato.
Gesù sulla croce mostra la via che rompe la catena della violenza sacrificale realizzando un amore che è per sempre, un’alleanza nuova e definitiva.
Le nostre alleanze, i nostri contratti invece fanno in fretta a saltare e a cambiare: le paure, l’ignoranza, l’egoismo impediscono il nostro cammino di unità, di condivisione. Anche le convenzioni per interesse durano ben poco e portano con sé conseguenze gravi. Vediamo appunto in questi giorni come il progetto europeo, nato sulle ceneri della Seconda guerra mondiale, sia stato completamente tradito. Dagli anni Ottanta si è scelto di imboccare la strada senza ritorno della finanziarizzazione della società (compiutasi nel 1992 con il Trattato di Maastricht) e il risultato? La mobilità dei capitali è diventata prioritaria su quella delle persone.
La crisi attuale è un’occasione per ripensare questo disegno, perché l’Europa odierna è destinata a distruggere le economie del Sud e a riaccendere l’odio tra i popoli. Ce lo direbbe oggi don Milani che ricordiamo nel 49° anniversario della sua morte avvenuta a Firenze (26 giugno 1967), se avessimo a cuore il futuro delle nuove generazioni.
«Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto» (Lettera ai giudici).
Attingiamo ogni domenica alla sorgente dell’amore e della nuova alleanza che è l’eucaristia, da qui impariamo il senso di ogni altra alleanza umana che va dal matrimonio a quella dei popoli.
(Es 24, 3-18; Eb 8, 6-13; Gv 19, 30-35)