PENTECOSTE - Gv 14, 15-20
Se facessimo una fotografia dello stato d’animo che provavano i discepoli di Gesù secondo la scena del libro degli Atti (2,1-11), potremmo con un ferma immagine segnare il passaggio, e ci sono voluti cinquanta giorni, dalla paura al coraggio, dal timore all’audacia. I discepoli di Gesù passano, grazie al dono dello Spirito di Dio, dal terrore di fare la stessa fine del Maestro, dalla paura, al coraggio di affrontare la realtà.
Celebriamo la festa di Pentecoste come la festa del coraggio, di quel coraggio di cui abbiamo bisogno anche noi per vincere le nostre paure, le nostre insicurezze, e che non significa diventare spavaldi e arroganti, ma significa mettere un poco di cuore nella vita, perché la vita è tutta una scelta fra paura e amore, e questo è vero in ogni ambito: personale, sociale, spirituale e professionale… Il coraggio dei discepoli non è stato un moto esclusivamente razionale, ma anche affettivo. Infatti coraggio non a caso viene dal latino cor, cordis: è un moto del cuore, come diciamo a qualcuno che è abbattuto: coraggio, ovvero butta il tuo cuore avanti!
Quando nel Vangelo di Giovanni (14, 15-20), Gesù dice: «Non vi lascerò orfani», con queste parole il Signore non si stanca di vincere la paura che sta lacerando il cuore dei suoi, la paura di rimanere soli, la paura di rimanere orfani di Dio e sembra dire loro: Coraggio, buttate il cuore in me! Abbiate fiducia in me!
Così dal Cenacolo dove stavano chiusi per paura, gli apostoli si buttano nelle strade di Gerusalemme e poi del mondo, col coraggio di pensare che quella parola di Dio che è Gesù, Torah fatta carne, ha qualcosa da dire a Parti, Medi, Elamiti… cioè a tutti i popoli, ad ogni cultura.
Un midrash paragona la Parola di Dio a un martello: il Signore batte con il martello della sua Parola sull’incudine di ferro che è il cuore dell’umanità e anche se non abbiamo mai visto questa scena, possiamo facilmente immaginare l’attrito tra il martello e l’incudine sprigionare scintille. Ebbene secondo il midrash il martello battendo su quel ferro sprigiona settanta e più scintille, ovvero una scintilla per ogni popolo allora conosciuto.
È questo il dono che domandiamo per il futuro del cristianesimo: il coraggio di credere che lo Spirito Santo col martello della Parola di Dio continui a forgiare il cuore dei suoi discepoli così che possa sprigionare scintille di giustizia, di pace, di solidarietà, perché crediamo che anche oggi sia possibile vivere come Gesù, che possiamo essere memoria viva di Cristo, grazie allo Spirito, a quello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va» (Gv 3, 8).
Ovvero grazie a quello Spirito che è il coraggio che vince la paura, che è comunione che vince l’isolamento, uno Spirito che dai nostri cuori induriti come il ferro può far scaturire scintille d’amore, così il nostro futuro e quello dei nostri figli non sarà orfano di Dio.
Paolo, nella Prima ai Corinzi (12, 1-11) ricorda che a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. E poi accenna a un elenco di doni, una lista potremmo dire di «scintille» da continuare aggiungendo altri doni che lo Spirito ha suscitato nella storia fino ad arrivare a ciascuno di noi… ma tutti questi doni sono sempre per il bene comune. Che cos’è questo bene comune, quale orizzonte dei doni di Dio?
Noi preferiamo evidenziare la nostra scintilla, abbiamo cura di sottolineare l’originalità del nostro dono, abbiamo una sensibilità culturale per ciò che caratterizza la singolarità, l’individualità… Paolo ci aiuta a ricordare che se i doni sono diversi, se i carismi, i ministeri sono variegati, uno solo è Dio che opera tutto in tutti, a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’unità della grande famiglia umana. Dal cap. 4 della Genesi continua a risuonare nella storia del mondo la domanda di Dio: Dov’è tuo fratello? Il sogno di Dio è l’unità della famiglia umana, la fraternità dei popoli.
Che cos’è questa fraternità? Non pensiamo a un sentimento vagamente dolciastro, a una visione romantica della società e nemmeno a un’utopia ideologica. Comprendo la diffidenza che leggo sui vostri volti perché a forza di usare questa terminologia nelle chiese, fraternità è diventato sinonimo anche di ipocrisia: ci diciamo «fratelli e sorelle»… ma poi fuori dal recinto sacro, altro che fratello e sorella!
Quando la Rivoluzione francese (1789) ha voluto raccogliere intorno a tre valori i cardini del cambiamento che ben conosciamo: liberté, égalité, fraternité, proprio l’ultimo è stato il più disatteso fino ad oggi. La fraternità è da sempre la cenerentola.
Qualche anno dopo, nel 1823 Ludwig van Beethoven completando la sua Nona sinfonia, si ispirò a una poesia di Schiller, consegnando al coro l’auspicio e la speranza: Tutti gli uomini diventano fratelli!
Ma che cosa è accaduto da allora? Quando nel 1985 l’Inno alla gioia di Beethoven (quarto e ultimo movimento della Nona sinfonia) divenne l’inno dell’Europa, fu subito privato del testo originale, anzi fu privato di qualsiasi testo. E noi canticchiamo quella musica, senza parole, senza testo, senza l’idea di fraternità, di fratellanza.
Se andiamo a leggere il Trattato di Lisbona (13 dicembre 2007), la parola «libertà» ricorre 38 volte. La parola «uguaglianza» 26 volte. La parola «fraternità»? Mai.
Questo per riconoscere come sia nel modo di pensare individuale la fraternità sia considerata una pia e devota aspirazione, niente di più.
Eppure dopo secoli in cui abbiamo lottato per la liberà e l’uguaglianza, per la difesa e la parità dei diritti dell’individuo, del singolo… abbiamo bisogno di ascoltare lo Spirito di Dio che ci chiede di aprire l’orizzonte della fraternità. Oppure saremo costretti nel crocevia della storia a perseguire la dittatura dell’io, dei diritti del singolo senza mai riuscire a pensare al bene comune. Senza mai pensare alla città come bene comune.
Anzi, oso sognare che se il XIX secolo è stato il secolo della libertà e delle libertà; se il XX secolo è stato il secolo della dignità e della ricerca della parità dei diritti… il XXI secolo non potrà che essere il secolo della fraternità. Voi direte: ma è utopia, è un sogno, lo dice bene una canzone di Ligabue: «Sono sempre i sogni a dare forma al mondo. Sono sempre i sogni a dare forma alla realtà».
È evidente quanto sia ìmpari questa prospettiva tra il nostro impegno e una simile visione fraterna dell’umanità: siamo poca cosa, anzi siamo anche divisi tra cristiani e questo potrebbe scoraggiarci… Ma dobbiamo credere nel dono Dio, fidiamoci della sua promessa e poi i cambiamenti nella storia cominciano dalla piccola unità di misura che siamo ciascuno di noi, come diceva Gandhi: «Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo».
Cambiamo il nostro modo di guardare, di leggere, di vedere il mondo, di vedere l’altro per imparare a riconoscervi il dono di Dio. Se il sogno di Dio è la fraternità umana, cominciamo a guardare diversamente il volto dell’altro. «Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, è costituito dalla mia responsabilità di fronte a un volto che mi guarda» (Lévinas).
Che lo Spirito dell’Eterno illumini i nostri volti per imparare la nostra responsabilità nella storia così da costruire una famiglia umana più fraterna.