III DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 25-36


Non è quasi mai un messaggio rassicurante quello del Vangelo, anche le pagine più ricche di fiducia e di speranza, come le parabole o le guarigioni operate da Gesù, lasciano quasi sempre trapelare ora in maniera aperta, ora in maniera più velata una tensione e un conflitto profondo.

Anche la pagina di vangelo di oggi che, così strappata dal contesto ci rende la vita più complicata, ci dà la “temperatura” di una tensione profonda tra Gesù e i suoi ascoltatori che possiamo comprendere nel rileggere l’inizio del cap. 5 dove si racconta che il Signore, salito a Gerusalemme per la seconda volta, si ferma alla piscina di Betzatà (in aramaico pecore) vicina alla porta delle pecore e famosa per i suoi cinque portici, e qui incontra un infermo che da ben trent’otto anni veniva pressoché ogni giorno alla piscina considerata miracolosa, ma essendo appunto paralitico non era mai riuscito ad entrare in acqua perché c’era sempre qualcuno più svelto di lui.

Situazione assurda e paradossale: possibile che nessuno abbia avuto la tenerezza di una spinta, una spinta dolce… ma forse a comandare era la paura che una volta buttato in acqua sarebbe annegato, le piscine erano profonde anche tredici metri! Esasperato si rivolge a Gesù: Non ho nessuno che mi immerga nella piscina… (v.7). Quest’uomo pur trovandosi in mezzo a decine di malati che sono nella sua stessa condizione o anche peggio, è tremendamente solo.

Che è la condizione di ogni uomo, di donna: ognuno di noi è solo nel proprio dolore, ma c’è qualcuno che lo è ancora di più.

Gesù intercetta la profonda solitudine di quel disperato e si accorge proprio di lui, anzi ha occhi solo per lui. Una cosa bella, no? Un uomo che era paralizzato da 38 anni e che un giorno di punto in bianco prende la sua barella e attraversa a piedi la città.

Un’esperienza straordinaria, gioia più grande non può esserci per uno che ha passato la sua vita costretto su una barella. Eppure c’è sempre qualcuno che ha di ridire e ha la sfacciataggine di dirgli: «Sai che è sabato e non puoi portare la barella?».

Da qui la discussione: Chi ti ha guarito? Gesù di Nazaret. E loro: ecco questo Gesù ormai è insopportabile, compie gesti sovversivi che destabilizzano il popolo, non si possono infrangere queste regole che reggono la società… Per questo – scrive Giovanni – i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo non solo perché violava il sabato, perché chiamava Dio suo Padre facendosi uguale a Dio.

Conoscendo l’antefatto possiamo ora comprendere le parole del passo evangelico di oggi che sintetizziamo in due punti.

Anzitutto Gesù ripete per due volte l’espressione: viene l’ora, per cui siamo resi consapevoli della gravità della tensione e Gesù così dicendo attesta di essere consapevole che “si sta scavando la fossa”, che i suoi avversari ormai non vedono l’ora (!) di toglierlo di mezzo. È il loro modo di reagire che conoscono perché non reggono il confronto con la verità.

Succede così anche a noi: quanto meno sosteniamo il confronto con la verità delle cose, della vita, dei problemi, dei rapporti… tanto siamo meno disponibili al dialogo e precipitiamo le cose pensando sia più facile risolvere il problema con una reazione violenta e di forza. Così è con Gesù: non riescono a reggere il confronto con lui e le sue parole, allora la cosa più semplice è togliere di mezzo il problema.

Ma in realtà il problema non è Gesù. Il problema sono loro. La regola che impedisce al paralitico di portare il suo lettuccio di sabato serviva per ricordare il dono di Dio che il sesto giorno aveva creato l’uomo… ora da lì a ingiuriare uno che dopo 38 anni finalmente non è più portato dalla sua barella, ma è lui che la prende in mano solo perché lo fa di sabato… siamo all’assurdo. In questo caso la regola religiosa tradisce lo scopo per cui era stata posta, non solo ma porta alla sua assolutizzazione così che addirittura legittima il togliere di mezzo il dono di Dio che è Gesù.

Non dimentichiamo che sono persone religiose, sono devoti, ben saldi nella tradizione e nelle loro regole… eppure sono incapaci di riconoscere il dono di Dio. Non sanno accettare la novità di Dio. Perché Dio è fantasia, non in quanto capriccioso, ma perché è vita e la vita è sorprendente, non è mai identica a sé stessa, non è mai ingessata. È installata ma non è mai ingabbiata nelle strutture umane, è Spirito, è soffio vitale. È dinamismo che rigenera e che rinnova, ma al tempo stesso è fragilissima.

Come reagisce il Signore? Ecco il secondo punto che possiamo raccogliere intorno al verbo testimoniare e al sostantivo testimonianza, che ricorre almeno otto volte in poche righe e sempre sulla bocca di Gesù in risposta alle accuse dei suoi avversari. Dove il testimoniare è da intendersi in senso giuridico: Gesù si trova ad essere accusato e allora, come in ogni processo, si sente in dovere di chiamare alcuni testimoni in suo favore per provare la verità della sua vita e della sua missione.

La testimonianza più visibile e concreta è lì sotto i loro occhi, è quell’uomo paralitico da 38 anni che ora cammina. Questo fa Gesù, queste sono le sue opere, opere che testimoniano che il Padre mi ha mandato.

Da che parte sta Dio? Da quella dei sacerdoti e degli scribi che arrivano in nome di una norma a uccidere? Dei farisei e dei sadducei che in nome della forma creano le élites della fede e gli scartati? No, Dio sta dalla parte di chi per 38 anni è andato solo sul bordo della piscina e non ha mai trovato braccia capaci di immergerlo nell’acqua! Da che parte sta Dio lo possiamo comprendere da quello che fa Gesù. Ecco perché per noi è importante tornare sempre lì, al vangelo, immergerci nelle acque del Vangelo se vogliamo camminare nella vita.

Per dirla con la bella espressione della Lettera agli Ebrei: Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù. È un programma per l’anno che ci sta davanti.

Corriamo: non c’è bisogno di dirlo, a Milano siamo sempre di corsa. Il tempo non ci basta mai. L’affanno ci prende, sembra sempre di inseguire le cose. Ebbene sembra però che anche in questa corsa che è la nostra vita possiamo stare con perseveranza, con tenacia, con coraggio… tenendo fisso lo sguardo su Gesù. La tenacia, la perseveranza, il coraggio non ci vengono semplicemente dall’allenamento, dai nervi saldi… ma dal tenere il nostro sguardo fisso su Gesù.

C’è un simpatico racconto di Gregorio di Nazianzo che nel IV secolo per dire l’importanza del tenere fisso lo sguardo su Gesù. Scriveva: È come nella caccia alla volpe. La volpe corre, mentre i cani la inseguono a perdifiato. A un certo punto, però, alcuni cani, stremati dalla fatica, si fermano e tornano indietro. Altri cani, invece, continuano a correre, fino alla fine, fino a che la volpe non è stata stanata. Perché? Perché i cani che non hanno visto la volpe, prima o poi si stancano, e rinunciano, mentre quei pochi che hanno avuto la fortuna di vedere la volpe proseguono la loro corsa fino in fondo”.

Ecco perché è importante per noi tenere fisso lo sguardo su Gesù! Anche se dobbiamo riconoscere che ci sono tante cose che ci distolgono dal tenere lo sguardo fisso sul Vangelo!

Può essere come per i farisei e i sacerdoti del tempo di Gesù il formalismo religioso che trasforma il mezzo della religione in qualcosa di fine a sé stesso. Al punto che uno crede di servire Dio scartando o addirittura uccidendo altri esseri umani. Ci sono nazioni e paesi che dicono di difendere i valori cristiani erigendo muri e chiudendo porte e porti, ma è la contraddizione con quanto annunciano. Come scrive Luis Sepùlveda: Non serve a niente una porta chiusa: la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare. L’ospitalità è un modo per rinnovarsi, nutrirsi di linfa nuova, imparare l’inaspettato dono di Dio e restare vivi.

Ma tra i tanti motivi che potremmo individuare, ce ne può essere anche un altro che ci distoglie dal tenere fisso lo sguardo sul Cristo e ce lo ricordano le parole di un martire del nostro tempo, don Pino Puglisi che venne ucciso dalla mafia nel giorno del suo compleanno, la sera del 15 settembre 1993, ventisei anni fa. Molti oggi, diceva don Pino, soffrono della sindrome del torcicollo perché continuano a voltarsi indietro, hanno paura del passato e non riescono a lasciarlo. Altri pensano, riflettono tanto, tanto, tanto da non muoversi mai. Alla fine restano con un piede in aria per la paura di fare un passo in avanti.

Don Pino primo parroco della Chiesa cattolica a essere stato proclamato beato per martirio perpetrato dalla mafia aveva lo sguardo ben fissato su Gesù e sul Vangelo e per questo ha potuto essere non solo uomo di fede, educatore dei giovani e punto di riferimento per le famiglie, ma anche un uomo capace di stare ben piantato nella periferia di Palermo come una spina nel fianco della mafia, semplicemente perché opponeva il Vangelo alla cultura mafiosa. E don Pino lo faceva non in modo ambiguo o nascosto, ma nella maniera più chiara possibile, alla luce del sole.

Due mesi prima della morte, in un’omelia, egli denunciava pubblicamente le minacce che lo bersagliavano da un anno: Oggi mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci! Vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile.

E rivolgendosi all’assemblea: Non è da Cosa nostra che potete aspettarvi un futuro migliore per questo quartiere. Il mafioso non potrà mai darvi una scuola media o un asilo nido dove lasciare i bambini quando andate al lavoro. Perché non volete che i vostri bimbi vengano a me? […] Noi chiediamo a chi ci ostacola, di riappropriarsi della umanità ed io sono disponibile ad accompagnarli in questo cammino.

Preghiamo insieme oggi gli uni per gli altri perché nella corsa della nostra vita possiamo tenere fisso il nostro sguardo su Gesù, e ci sia dato di evitare ogni formalismo religioso, ma anche ogni forma di ignavia e ogni mancanza di coraggio nel rendere testimonianza al Vangelo.

(Ebr 11,39-12,4; Gv 5, 25-36)