II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Mt 22, 1-14
(Mt 22, 1-14)
Con l’immagine del banchetto il Signore racconta una storia antica, come abbiamo ascoltato da Isaia, la storia di un Dio cui piace avere tanta gente alla sua tavola, perché è un Dio che cerca la festa con l’uomo e la donna di sempre.
Che sia poi un banchetto di nozze è una costante nella Scrittura: dall’inizio fino alla fine, pensiamo al profeta Osea… passando attraverso Gesù che spesso vediamo seduto a tavola (non a caso i suoi nemici lo accusano di essere mangione e beone), per giungere fino all’Apocalisse (19,6-9), quando, per dire la visione ultima delle cose, Giovanni ricorre alle nozze dell’Agnello come all’immagine conclusiva e finale della storia. Tutta la storia ha questa direzione.
Parlare di matrimonio e di nozze rimanda ad una relazione intima, profonda, intensa e noi potremmo aggiungere esclusiva, cosa c’entra Dio in tutto questo? Chi di noi può dire che vive l’incontro con Dio come vive l’incontro con la donna o con l’uomo che ha sposato e che ama? Dobbiamo riconoscere che, stando alla Scrittura, così almeno è come la pensa Dio, lui cerca tale relazione… non è proprio così per noi perché ci mettiamo le nostre distanze e resistenze. Però Gesù dice che il Padre va amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze.
Ragionando così, non si corre il rischio di ridurre il rapporto con Dio ad una cosa intima, come suggerirebbe l’immagine delle nozze? Infatti la parabola parla della partecipazione al banchetto, a un banchetto, come diceva Isaia, riservato non a pochi invitati, ma un banchetto preparato da Dio per tutti i popoli. La conferma è data dal modo di fare di Gesù, basti pensare quante volte il Signore si è messo a tavola con i giusti e con i peccatori, con le persone per bene e con quelle poco raccomandabili… questo per dire che il Padre va in cerca di tutti, ma proprio di tutti.
Eppure nel racconto evangelico per ben due volte l’invito viene respinto! È una esperienza che conosciamo bene: possiamo accettare di buon grado l’invito a un matrimonio oppure possiamo viverlo come un obbligo, se non proprio come un fastidio. La differenza la fa il tipo di rapporto con abbiamo con gli sposi. Se c’è un affetto, un legame, una storia… allora si partecipa volentieri e si condivide la gioia di quel giorno. Ma se invece non ci sono rapporti significativi e non c’è frequentazione, allora diventa un impegno che si cerca in ogni modo di evitare.
Gli esegeti ci dicono che la parabola dal punto di vista del rifiuto ha una sua stratificazione storica, nel senso che anzitutto Gesù – siamo a Gerusalemme ormai in quella che consideriamo la settimana santa – racconta questa parabola per rispondere allo scandalo che la sua frequentazione dei poveri, dei peccatori, degli esclusi suscitava presso i farisei e i capi del popolo. Gesù appunto è il figlio che celebra le nozze dell’amore di Dio col suo popolo, ma i farisei non accettano l’invito. Allora Dio accoglie i pubblicani e i peccatori, le prostitute e i pagani. Luca precisa: poveri, storpi, ciechi e zoppi… In questo caso la demarcazione tra chi accetta e chi rifiuta è all’interno dello stesso Israele: da una parte i semplici, i peccatori che accettano Gesù e dall’altra le autorità e i maestri che lo rifiutano.
Poi c’è un secondo livello storico, nel senso che la parabola riflette anche la condizione della comunità di Matteo che deve misurarsi sul fatto che Israele rifiuta il Vangelo, mentre i pagani lo accolgono. E qui l’opposizione non passa più all’interno di Israele, ma fra Israele e gli altri popoli. Il riferimento alla città data alle fiamme (v.7) fa pensare alla distruzione nel 70 d.C. di Gerusalemme e alla diaspora che ne è seguita e che ha portato appunto gli apostoli ad annunciare il Vangelo fuori dai confini d’Israele.
La parabola offre dunque una lettura teologica delle vicende della storia: nei due casi storici che abbiamo riscontrato, facciamo i conti prima con il rifiuto di Gesù da parte delle autorità e poi da parte del popolo. Ma nel racconto c’è un finale che non si ferma al giudizio sul passato, perché ad un certo punto anche noi siamo introdotti con il re nella sala del banchetto e allora assistiamo a una scena incresciosa, e ci dispiace per quel poveraccio che se era tale, non poteva certo permettersi l’abito da cerimonia…
È proprio questo particolare ad aprire i contorni del racconto su di noi, come su tutti coloro che avendo accettato l’invito di seguire Gesù potrebbero proprio per questo illudersi di sentirsi a posto! Non ci è concessa nessuna illusione: l’essere entrati nella sala del banchetto non esaurisce il compito, non è una garanzia. Occorre avere l’abito, quello che i Padri vedevano come il vestito battesimale, un vestito di fede e di opere corrispondenti (La veste di lino sono le opere giuste dei santi, Ap 19,8).
L’habitus, le abitudini, i modi di fare e di essere secondo il vangelo, perché non è l’appartenenza a decidere della salvezza, ma le scelte, i comportamenti. Il giudizio su Israele che non accetta l’invito va in parallelo con il giudizio sui cristiani che sono seduti al banchetto nella sala delle nozze. Anche i cristiani saranno giudicati come Israele sulle opere degne del regno di Dio. Infine nella parabola incontriamo accanto alla figura degli invitati quella un po’ più dimessa, dei servi. Siccome le parabole presentano sempre significati diversi a livelli diversi, mi sono detto che forse Gesù vuole ricordarci che noi siamo allo stesso tempo servi e invitati. Siamo invitati, perché il Signore donandoci Gesù ci invita alla relazione con lui e questa è la cosa fondamentale, centrale, importante. Ma al tempo stesso siamo servi, e in questo dobbiamo vigilare perché la missione della chiesa non si riduca mai alla preoccupazione di conservare se stessa, ma ad essere segno che conduce al di là di sé, che invita alle nozze con il Signore.
Certamente è uno strano banchetto questo di Gesù che ci vuole a tavola e che ci sospinge fuori dalla sala a chiamare tutti gli altri, ci manda nelle strade, nei vicoli… In altre parole si tratta di portare la veste battesimale per le strade, non possiamo tenerla al riparo dentro gli armadi della sagrestia. Gesù usando il termine “servi”, per dire la nostra missione, usa un termine dimesso, non arrogante che è come dire: siete invitati, e quindi state attenti a non essere indegni, ma anche servi, perché non abbiate a sentirvi proprietari del regno e siate invece pronti a servire il Signore con la sua stessa preoccupazione che è quella che tutti i popoli possano partecipare al suo banchetto.