IV DI AVVENTO - Mt 21, 1-9


audio 4 dic 2022

Consolate, consolate il mio popolo, dice Isaia. E non è questo forse il compito della religione? Dare conforto, consolazione, rassicurare i cuori incerti e le menti smarrite?

Ora da sempre possiamo dire che il compito della religione è stato quello di consolare, di confortare, di rassicurare, di vincere la disperazione, al punto che qualche critico, qualche pensatore e filosofo ha trovato in questo il limite stesso della religiosità.

Domenica scorsa abbiamo fatto riferimento a Freud e al tema dell’illusione religiosa, oggi mi viene da pensare a quanto diceva Karl Marx a proposito della religione. Per lui le parole di Isaia potrebbero essere benissimo considerate alla stregua di una droga, la religione non solo come inganno, ma come una droga, al punto che scrive: è l’uomo che fa la religione, e non la religione che fa l’uomo…. Essa è l’oppio del popolo. La soppressione della religione quale felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità.

Marx riconosce un ruolo positivo alla religione, nel senso che dà voce alla sofferenza delle vittime di una struttura sociale ingiusta. La richiesta di aiuto che l’oppresso volge a Dio è il suo gemito. In questo senso la religione rappresenta una protesta contro il male, l’ingiustizia.

Però ha anche un ruolo negativo perché la protesta si esaurisce nella preghiera rivolta a Dio, quindi nell’attesa di un aiuto che viene da altrove. La religione si limita ad essere un lamento sul mondo che è al contempo una dichiarazione di impotenza e di rassegnazione.

Perché il popolo deportato non si è organizzato e non ha tentato di reagire con una rivolta, una ribellione o altro?

Perché si è lasciato ‘drogare’ appunto dalla religione. L’oppio di per sé è una droga che svolge una duplice azione, doppiamente negativa. La prima è allontanarti dal mondo reale per trasferirti in un paradiso artificiale inesistente. La seconda è creare una dipendenza assoluta che chiede una nuova dose di droga…

Ora alle parole di Isaia il vangelo prospetta una pagina che cronologicamente appartiene alla settimana santa e c’è un motivo perché l’ingresso di Gesù in Gerusalemme racconta non di un’evasione dal mondo, ma della necessità di affrontare la realtà delle cose.

Per certi aspetti Marx e Engels avevano ragione, nel senso che parlavano di religione e non di Dio. Alla scuola della Scrittura abbiamo imparato, e sempre di nuovo impariamo, che Dio e religione – compresa quella cristiana – sono due realtà diverse, talvolta persino opposte.

È vero che anche la religione cristiana ha spesso imbrigliato in vari modi le coscienze, anziché liberarle. È vero che anche il cristianesimo come religione organizzata si è prestato a mantenere lo satus quo dell’ordine sociale e politico.

Ma di tutt’altro tenore è la pagina di vangelo che dice di come Gesù entra nella vita e nella storia umana.

Non siamo dinnanzi a una evasione ‘oppiacea’: nell’ingresso di Gesù riconosciamo il venire di Dio nella realtà, il suo entrare dentro la città dell’uomo.

Gesù non si ferma fuori dalla città, non sta a distanza: si avvicina ed entra. Entra nella sua città. Non tiene le distanze.

Non tiene le distanze anche se sa che Gerusalemme è anche la città che lapida e uccide i profeti. Ucciderà anche il profeta da Nazaret di Galilea. Pensate quanto amore… e quanta passione in questo entrare di Dio. Ieri in Gerusalemme. Oggi nelle nostre città che non sono meglio di Gerusalemme.

E come viene? Gesù non viene con la forza delle armi e degli eserciti, non ambisce a insediarsi nei centri del potere, non è che fonda un partito o che si allei con le forze sociali che contano per sbalzare i potenti dai troni… Gesù entra in città non con il cavallo da guerra, ma con l’asino, e l’asino che è un animale da lavoro, ci dice che il lavoro da fare è enorme.

La domanda che subito mi assale è se noi come chiesa abbiamo imparato a entrare così nella città dell’uomo, non alla ricerca del potere, del privilegio, del poter contare… ma con la fatica dell’asino, vale a dire con mitezza, con coraggio, con la forza della Parola e dell’amore per gli ultimi.

Questo però è un altro modo di essere chiesa. La chiesa che fa la fatica di portare Gesù, perché questo è il compito dell’asino. Quando invece mi sembra che facciamo molta fatica a scrollarci di dosso il retaggio dei secoli che ci hanno preceduto e che hanno condotto la chiesa a difendersi, a chiudersi su se stessa, sul proprio sistema religioso che poi rischia, come è accaduto, di diventare alienante.

Danièle Hervieu-Léger, una sociologa francese nel suo ultimo libro, “Vers l’implosion?”, descrive il rischio che sta toccando la Chiesa di Francia, e non solo dico io, vale a dire: implodere. Mi ha colpito, anzi preoccupato. L’autrice parla del “sistema difensivo” della Chiesa.

Da oltre quattro secoli la Chiesa gioca a difendersi. Si difende dai protestanti, dalla scienza, dalla Rivoluzione francese, dal modernismo. Il “sistema difensivo” è diventato ormai uno stile.

Noi abbiamo “le verità” e le difendiamo dagli altri. Ogni giorno ci impegniamo a difendere le verità dagli “altri”. Così si generano nemici. Ci siamo noi e gli altri: noi che abbiamo le verità e gli altri che sono “senza verità”, fuori dalla verità. Due entità distanti. Due realtà parallele: la Chiesa e la società. Due mondi che non comunicano.

Da un lato, la società che sente la Chiesa “violenta” nel suo proporsi, nel suo barricarsi. Dall’altro la Chiesa, che non capisce il mondo, lo sente lontano, incomprensibile. Siamo diventati vicendevolmente estranei. Tante persone ci percepiscono estranei, astrusi, astratti, antichi, muti. Non capiscono più la nostra lingua. Eppure siamo tutti abitanti della stessa terra.

Non ci rendiamo conto che tra noi le somiglianze sono più delle differenze?

Tra cattolici e valdesi è più ciò che unisce di ciò che divide. Tra credenti e non credenti è più grande la somiglianza che la differenza. Tutti portiamo in cuore sogni, ferite, dolori, amori, fatiche.

Dobbiamo smettere di difendere le nostre verità e imparare ad ascoltare, incontrare, condividere. Così Gesù è entrato nella contraddittoria Gerusalemme: città che credeva di dare casa a Dio (questa è religione), con la consapevolezza umile e ostinata di fare un duro lavoro.

Così oggi come chiesa dobbiamo fare il salto dal “sistema difensivo” al sistema “accogliente”, per tornare a parlare la lingua degli umani.

Come faceva Gesù. Non difendeva verità, ma ascoltava domande.

Non difendeva verità, ma ascoltava storie.

Non difendeva verità, ma donava cura e speranza.

Non difendeva neppure se stesso, ma si sedeva con tutti e li prendeva sul serio.

Torniamo a fare la fatica dell’asino. La fatica di portare Gesù.

(Is 40,1-11; Mt 21,1-9)