DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 18, 1-10
Il mondo è pieno di scandali ed è inevitabile che avvengano, dal momento che la libertà umana prevede deviazioni di ogni tipo. Pensiamo alla corruzione economica e politica, allo spaccio di droga, alla vendita delle armi, al commercio della prostituzione, al commercio di organi umani…
Scandalo è costringere un bambino alla violenza e a imbracciare un fucile.
Scandalo è far scorrere tra le piccole dita di un bambino il filo della trama di un tappeto o della cucitura di un pallone di cuoio.
Scandalo è ridurre i bambini e le bambine a merce sessuale per adulti malati.
Scandalo è tutto questo e tutto ciò che non vorremmo mai immaginare possa accadere a un nostro figlio, a una nostra piccola.
Gesù stesso pare constatare con una certa rassegnazione: è inevitabile che avvengano scandali!
Eppure questo dipende anche da noi, da tutti noi, perché Gesù non si rivolge a pedofili, a mercenari, a una qualche categoria di persone che non riteniamo degne di tale nome e che guardiamo dall’alto in basso. Non parla nemmeno di patologie, di problemi psichici, non stila diagnosi neuropsichiatriche. Lo scandalo, per Gesù, è anzitutto una questione culturale, un modo di essere e di pensare, infatti il suo argomentare muove dalla domanda dei discepoli: Chi è il più grande?
Gesù ci costringe ad entrare in noi stessi e a fare i conti con questa profonda attitudine che ci muove tutti, quella di esercitare potere sugli altri, per poi rovesciare questa mentalità.
Un potere che soprattutto quando si esercita un ruolo educativo, che sia di genitore, di prete, di insegnante o di educatore in genere, è ancora più carico di responsabilità, perché la relazione educativa si fonda sulla fiducia, sul rapporto fiduciario che il piccolo soprattutto getta nelle braccia dell’adulto che dovrebbe costituire per lui un riferimento saldo e autentico.
Gesù denuncia la bramosia di potere come la radice da cui si genera poi ogni altra forma di prepotenza, di prevaricazione e di violenza sull’altro.
Ci scandalizziamo giustamente per i bambini soldato, per il loro sfruttamento sul lavoro… Gesù ci invita ad andare alla radice di questi fenomeni che sorgono dentro una cultura diffusa di uomini e donne schiavi del successo ad ogni costo, vite sedotte dal potere e dal denaro, per dire che l’uomo non è il posto che occupa, il ruolo che esercita!
Questa è anche la tentazione del gruppo dei discepoli che nemmeno di fronte a Gesù possono fare a meno di domandare come poter scalare il potere per contare di più, per essere appunto “più grandi”? letteralmente per essere mega?!
Chi occupa la sedia più importante? Chi siede più in alto? Ecco la terribile tentazione dalla quale nemmeno la chiesa di Cristo è esente.
Siccome il potere fa parte della natura umana, siccome il dominare ci appartiene, voler essere “più” degli altri è legittimo, Gesù non reprime la domanda, non dice di rimuovere questa ambizione, il suo invito consiste nello spostare l’oggetto di tali desideri, di rovesciare questa mentalità.
Ci chiede di cambiare lo sguardo sugli altri, di modificare il modo con cui guardiamo chi ci sta accanto per imparare a vederlo non come oggetto, come preda per soddisfare la brama di dominio, ma come un dono.
Solo guardando l’altro come lo guarda un bambino, dice Gesù, puoi vedere il volto del Padre che è nei cieli!
Ed è la sintesi più bella della nostra fede: non possiamo mai dire di amare l’uomo senza amare Dio, nemmeno però possiamo dire di amare Dio senza amare l’uomo.
Nel chiamare quel bambino fino ad abbracciarlo, il Signore compie un rovesciamento di valori: cosa fa quel bambino che ascolta la voce di Gesù? Ascolta, obbedisce e si muove.
Il bambino è metafora, immagine di ogni uomo e di ogni donna che si fa piccolo quando ascolta la parola di Gesù, obbedisce e di conseguenza muove i suoi passi.
Allora comprendiamo che l’essere piccolo, non è questione di età, né di anagrafe, né semplicemente si tratta di dare voce al bambino che è in noi, o a quel poco di bambino che è sopravvissuto dentro di noi alle prove della vita.
Tant’è che nella prima lettura abbiamo ascoltato la storia di un anziano novantenne di nome Eleazaro che ascolta la Parola, le obbedisce e si mantiene fedele, si fida di Dio costi quel che costi.
L’egemonia culturale del momento gli consiglierebbe di adattarsi al nuovo corso delle cose, il tiranno di turno vorrebbe piegarlo ai suoi capricci… e lui, Eleazaro, saggio novantenne, invece si fida come un bimbo della parola di Dio e la vive fino in fondo, disposto a morire.
La sua preoccupazione non è principalmente la coerenza con sé stesso, il suo pensiero è lasciare ai giovani “un nobile esempio”.
Non gli importa fare un bel discorso, stilare un bel testamento… ma lasciare un nobile esempio. Eppure chi è questo Eleazaro di fronte al tiranno di turno? Un vecchietto novantenne, un ‘piccolo’ uomo che resiste alle prepotenze del potere, radicato nella fede si è liberato dalla schiavitù del dominio sugli altri.
È questo il ‘nobile esempio’ che la chiesa lascia ai giovani oggi? Dovremmo smetterla di lamentarci se i giovani non vengono in chiesa, fino a quando noi non saremo in grado di lasciare loro un nobile esempio.
Il cardinale Martini, di cui ricordiamo nei prossimi giorni il decennale della morte, nel commentare questo passo di Matteo, diceva: Più volte ho insistito anche nelle lettere pastorali sull’importanza della comunità alternativa, dove le relazioni sono regolate dal Vangelo, dalla semplicità, dall’umiltà, dalla gratuità, dal perdono reciproco e non dalla competitività, dalla legge del taglione, del successo, del guadagno, dell’audience.
È questa la nostra chiesa oggi? Direi che, come dice sempre Martini, la parola di Gesù sui bambini è certamente sconvolgente, è come uno schiaffo per noi e per le nostre comunità, e insieme è un punto di riferimento: che cosa vogliamo essere? [1]
Ecco la domanda per noi, per la nostra vita personale, per la nostra chiesa in questo tempo di ripresa dopo la pausa estiva: chi voglio essere io, che cosa voglio fare della mia vita, che chiesa vogliamo essere noi?
Cominciamo allora con fare verità sulle persone che guardiamo con ammirazione e che cerchiamo come modelli. Abbiamo occhi e sguardi pieni di invidia per chi ha successo, per chi scala le cronache, per chi vive di potere? O abbiamo occhi e sguardi per Gesù che si è fatto piccolo, l’ultimo il servo di tutti?
Torniamo a mettere al centro dei nostri sguardi i piccoli, gli scartati, i senza potere, coloro che in silenzio e ogni giorno tessono la trama di fedeltà alla vita, con rispetto e amore.
Impariamo il gesto di Gesù e mettiamo al centro delle nostre comunità, dei nostri gruppi, delle nostre riflessioni tutti quei piccoli, quei poveri, quegli scartati secondo il Vangelo che ancora oggi ci offrono dei nobili esempi di vita giusta, senza clamore e senza ostentazione.
(2 Mc 6,1-2.18-28; Mt 18,1-10)
[1] C.M. Martini, Perché il sale non perda il sapore, p.149