II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Mt 13, 47-52
(Fil 3, 13-4,1; Mt 13, 47-52)
Quella che abbiamo ascoltato è una parabola, anzi l’ultima delle sette parabole che costituiscono il cap.13 di Matteo, con cui Gesù cerca di farci comprendere come agisce il regno di Dio nella storia umana.
Ma le parabole non sono il primo annuncio del Signore. Gesù non comincia la sua attività raccontando parabole, la prima cosa che predica per le strade d’Israele è: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino (4, 17).
E che il regno di Dio, cioè l’Eterno, sia vicino Gesù lo attesta guarendo i malati, i paralitici, i lebbrosi, gli indemoniati (4,23-24), tant’è che le attese della gente cominciano ben presto a crescere: grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano (4, 25).
La questione è che nel giro di poco tempo queste aspettative non corrispondono ai risultati, il cambiamento annunciato non si verifica. Il Battista stesso, ricorderete, manda a dire: ma sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro? (11, 3). La gente che ha cominciato a dare fiducia a Gesù, a credere in lui vorrebbe vedere dei segni più chiari, perché aspettare? quando viene questo regno di Dio? e poi se le autorità si oppongono, cosa vuol dire? Insomma, dopo l’entusiasmo iniziale anche Gesù si confronta con la critica, le obiezioni, le difficoltà.
A questo punto il modo di parlare di Gesù ricorre alle parabole: il Padre è come un seminatore che dà a tutti i terreni la possibilità di far nascere il seme. L’agire di Dio non appare, non si mette in mostra, non fa pubblicità, è come un granello di senape, si comporta proprio come il lievito nella pasta: è poca cosa, ma può davvero fermentarla tutta. È anche vero che il seme deve fare i conti con la zizzania, con l’erba cattiva, ma non dovete preoccuparvi, un giorno si farà chiarezza, si farà giustizia.
Dio – ecco la parabola di oggi – è come un marinaio che getta la rete nel mare.
Si tratta di un’ immagine di grande impatto evocativo per chi l’ascolta: il mare è la storia umana, piena di vita, di originalità, sorprendente come lo è il mare quando si comincia a prendere un po’ di confidenza.
La storia umana è anche drammatica come succede nel mare in tempesta o in burrasca: ci disorienta, ci spaventa … quante volte Gesù aveva visto, passeggiando sulle rive del lago di Tiberiade, i pescatori gettare le reti e poi scegliere il pesce da portare a riva e quello invece da ributtare in mare …
Ecco, dice il Signore, anche noi viviamo un po’ come quei pesci che vedono solo l’acqua che li circonda, che pensano a mangiare e a bere, a fare la loro vita, immersi nelle loro cose.
I pesci non chiudono mai gli occhi, eppure non sanno vedere che prima o poi ci sarà il momento in cui saranno pescati.
Non è facile nemmeno per noi vivere pensando che prima o poi arriverà anche per noi quel momento.
In realtà questo è un tema rimosso dalle nostre culture. Solo quando accade che la morte strappa qualche giovane vita allora veniamo scossi, siamo sconvolti, ma per essere poi ri-immersi nel vortice delle nostre agende.
Viviamo più o meno giusti, secondo verità o indugiando nella mediocrità, ma il nostro termine di confronto è più facilmente condizionato dal pensare di cavarcela, o tutt’al più di essere accettati e stimati dagli altri.
Quante decisioni, quante scelte compiamo in un giorno preoccupati di fare bella figura, nell’intento di emergere e di essere considerati agli occhi degli altri.
Quanto tempo dedichiamo a curare la nostra immagine, quello che appare di noi.
Quante ansie e angosce ci riempiono il cuore e trattengono lo sguardo sempre abbassato sulle nostre cose!
I pesci non chiudono gli occhi – come scrive uno scrittore contemporaneo – e noi da loro dovremmo imparare a vedere oltre l’acqua, oltre quel liquido amniotico nel quale ci crogioliamo pensando che la vita sia tutta racchiusa in questa dimensione.
Conoscete la storia dei due gemelli, un maschietto e una femminuccia che, ancora nel grembo della madre, si ponevano già delle domande.
La bambina chiedeva al fratellino: “Secondo te, c’è qualcosa fuori di qui?”.
Lui: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa?”.
La bimba, facendosi coraggio: “Chissà, forse esiste qualcuno che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi”.
E lui: “Vedi forse qualcuno da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”.
Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”.
“A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”.
“Vedi, concludeva la sorellina, penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.
Con la parabola della rete e dei pesci Gesù ci invita a guardare oltre. A stare con i piedi ben piantati per terra, ma con gli occhi che sanno attendere quella dimensione che va al di là della cronaca e della scansione dei giorni … perché, come dice Paolo, la nostra cittadinanza è nei cieli.
Dove per cieli non intendiamo banalmente un luogo, uno spazio, un tempo dilatato, ma una relazione, la relazione dalla quale veniamo e nella quale ci immergiamo per sempre e che sola farà chiarezza della nostra tormentata esistenza.
Se le relazioni sono fondamentali per la qualità della nostra vita, domandiamoci se questa non sia la spinta che già qui ci sprona a cercare la relazione con una vita che non muore.
Ecco, tenendo viva questa dimensione, senza fare del terrorismo psicologico, senza usare il giudizio di Dio come uno strumento per spaventare e controllare, ma quale condizione e sapienza di vita, saremo anche noi, dice Gesù, come quello scriba che divenuto discepolo del regno è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
È un’espressione paradossale perché ordinariamente nel tesoro, ossia nella cassaforte e nelle cassette di sicurezza, mettiamo le cose antiche … le nuove le andiamo a comprare.
Gesù dice che chi sa stare con gli occhi aperti, ovvero chi sa che questo nostro misero corpo sarà trasfigurato (Paolo), chi sa vivere la vita che è il nostro vero tesoro nella prospettiva della risurrezione, cioè di una relazione eterna, sarà capace di dare per sé e per gli altri significati nuovi e antichi.
Senza questa sapienza succede come a quel giovane – racconta un testo ebraico del XVIII sec – che voleva diventare fabbro.
Cosa fece quel giovane? Si fece apprendista di un fabbro e imparò tutte le tecniche del mestiere: come impugnare le tenaglie, come sollevare la mazza, come battere sull’incudine, come ravvivare il fuoco con il mantice.
Terminato il periodo di apprendistato, fu chiamato a lavorare in una fucìna del palazzo reale. Ma la soddisfazione del giovane finì quando si accorse che non era riuscito a imparare come far scoccare la scintilla. Tutte le sue capacità e abilità nel maneggiare gli strumenti non gli furono di alcuna utilità.
La nostra vita è immersa in questa condizione per cui impariamo a stare al mondo, a lavorare, a crescere amicizie e affetti, a darci delle competenze. Le nostre settimane scorrono inesorabili in questo apprendistato.
Ma a ben poco servirebbe tutto questo se non imparassimo a far scoccare la scintilla. Chiediamo al Signore di essere come i pesci della parabola, dagli occhi sempre aperti!