XII DOPO PENTECOSTE - Mt 10, 5b-15
Quando ascoltiamo parole come quelle rivolte da Gesù ai Dodici sulla missione, sull’invio ad annunciare il Vangelo e a prendersi cura delle ferite dell’uomo (Mt 10,5-15), spontaneamente pensiamo che siano indirizzate a chi fa questo di professione: ai preti, alle suore, ai missionari…. Forse qualche cristiano più consapevole si sente chiamato dentro questa stessa missione nel suo ambito di famiglia, di casa e di lavoro… ma stando alla radicalità delle parole di Gesù è ben difficile oggi identificare chi possa corrispondere alle sue richieste: non procuratevi né oro, né denaro… né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…
Questo scarto tra ciò che Gesù chiede e quello che noi siamo – e che storicamente siamo stati -, forse ci può aiutare a ribaltare la questione e a domandarci: non tanto quello che dobbiamo fare noi, ma chi ci manda il Signore oggi? Chi vediamo senza sacca da viaggio, senza il ricambio dei vestiti, senza dispensa? Chi è che oggi è nella condizione di vivere sulla strada, itinerante?
Sono le migliaia di esseri umani che via mare, via terra, su mezzi di fortuna, siano essi pick up o carrette d’acqua, a costituire oggi la profezia più evidente. Il Signore manda a noi curdi, eritrei, siriani, nigeriani, afgani… sono loro oggi senza sacco da viaggio, senza la doppia tunica, senza bastone che silenziosamente rendono presente un Dio fragile e bisognoso.
Sono loro la profezia di Dio per noi. Per noi, che ormai ci siamo assuefatti al bollettino di morte che proviene dal Mediterraneo, perché davvero ci abituiamo a tutto e andiamo pigramente dietro a quegli irresponsabili alimentatori delle paure della gente le cui parole sono sempre più simili a rutti concettuali che non a pensieri degni di un essere umano.
È davvero amaro constatare che la crosta dell’abitudine sta un po’ per volta sterilizzando i nostri cuori e le nostre menti. Ma vivere in una società nella quale ci si abitua a non far niente di fronte a un massacro quotidiano non è privo di conseguenze. Proviamo a pensare: come saranno i figli di una società capace di una tale rimozione collettiva? Che fine faranno i nostri ideali democratici, la difesa dei diritti umani, la sacralità della persona… nel momento in cui impariamo a girare la faccia dall’altra parte di fronte a disperati in fuga?
In questo senso credo che la sosta domenicale ci aiuti a leggere il fenomeno migratorio come parola di Dio per noi: sono loro che vengono ad annunciarci che Dio è qui, è presente, Dio è in questa umanità dignitosa e povera, disposta a intraprendere un viaggio che in media dura dai 16 ai 22 mesi, disposta a rischiare la stessa vita per garantire alle proprie famiglie un futuro diverso. E non faremmo così anche noi?
Dio è incontrabile più in loro che non nelle nostre liturgie, nei nostri libri, nelle nostre devozioni e istituzioni. Dio abita questo inferno dell’umano, inferno fatto appunto come dice Gesù di malattia, morte, lebbra e demòni. Proprio loro vengono a dirci: il regno di Dio è vicino! Dio è qui.
Non è come spesso si va semplificando questione di «buonismo», perché per contro è facile fare i duri con i deboli, con gli indifesi, con chi è senza diritti. Il fatto che non si arrivi a una soluzione nell’epoca in cui le nostre società hanno soluzioni per tutto, significa che la soluzione in realtà non è una priorità, non interessa.
Geremia nella prima lettura (25,1-13) di fronte a un popolo distratto, superficiale, intimamente pigro – che mi pare siano caratteristiche che ben ci descrivono – tenta inutilmente di toccare i cuori dei suoi ascoltatori che non si preoccupano minimamente di comprendere quello che va accadendo. Geremia sconsolato, riconosce l’insuccesso della sua predicazione: «fino ad oggi sono ventitré anni che mi è stata rivolta la parola del Signore» (v.3), e se è diventato profeta a vent’anni (627 a.C.), almeno metà della sua vita l’ha trascorsa a sollecitare le coscienze, a svegliare le intelligenze e i cuori della sua gente… ma la risposta non c’è stata.
Infatti, sarà un’invasione, quella di Nabucodonosor, anzi a una prima nel 598 ne seguirà una seconda dieci anni dopo, a piombare su Gerusalemme e a vedere deportato il fior fiore della popolazione e, quasi come in un teatro perverso, la sua gente accuserà il profeta della disfatta e lo getterà in una cisterna perché muoia. Ma lui, niente, rimane fedele alla parola di Dio.
Finché ci si occupa delle cose del tempio, delle pratiche religiose, delle funzioni, l’uomo di Dio non disturba. Ma quando richiama le coscienze, scuote gli interessi e le pigrizie… allora disturba e dà fastidio. Ma è proprio questo che la fedeltà alla parola di Dio esige da noi oggi: essere profeti in questo frangente storico. Come?
Anzitutto, non accontentandoci di informazioni superficiali e manipolate, ma cercando di chiederci quali siano le vere ragioni del grande esodo, rispetto al quale l’Europa, nel suo complesso, ostenta un algido cinismo. Guerre, tirannie, persecuzioni… ma non solo. Molte sono popolazioni alle quali abbiamo imposto oneri a non finire e negata ogni visibilità mediatica per poter continuare a condurre un’indisturbata predazione delle risorse delle terre dove vivono… che si tratti di minerali pregiati o di fonti energetiche, la dura verità, che alcuni vorrebbero non trapelasse mai, è che il mondo “civilizzato” ha ricevuto dalle periferie del villaggio globale molto più di quanto abbia restituito.
Vogliamo che ci sia una globalizzazione di merci e di denaro, ma le persone devono essere fermate! Non dimentichiamo che c’è tanta mobilità di popoli, perché c’è tanta ingiustizia nel mondo.
E poi ipocritamente tralasciamo di spiegare che la mobilità umana, anche in circostanze estreme, può trasformarsi in forza propulsiva di sviluppo, purtroppo certa comunicazione ha colpevolmente limitato il tema dell’immigrazione alla cronaca degli sbarchi. Fatto sta che i neuroni dell’anima di interi settori di opinione pubblica si sono spenti.
Infine dobbiamo essere profeti anche perché non possiamo accettare una parodia di cristianesimo così come ci viene proposta da un leghismo grossolano. Certo per tutta onestà dobbiamo dire che per decenni la chiesa italiana ha spianato e sbriciolato senza nessuna pietà ogni voce apparentemente dissonante dalla propria, sacrificando anche menti e spiriti belli. Oggi la chiesa paga il conto di aver tollerato e finanche sotterraneamente coltivato un profilo culturale che ha accolto in sé i germi più velenosi del razzismo leghista.
Rispondiamo con le parole del cardinal Martini, pronunciate il Giovedì santo del 1989:
«Come cittadini, noi abbiamo l’obbligo di prendere posizione davanti a episodi che, nella loro intolleranza, rappresentano una violazione dello spirito e del tessuto democratico. I valori di solidarietà, di rispetto presenti nella nostra Costituzione e nella nostra legislazione, non possono essere disattesi e contradetti nella sostanza.
Inoltre, il risorgente fenomeno di reazione di fronte a chi è di altra razza o colore non ci interpella solo come cittadini, bensì anzitutto come cristiani. Siamo sollecitati dalla forza del Vangelo ad annunziare e a praticare l’accoglienza, la riconciliazione, la solidarietà verso tutti; siamo sollecitati a proclamare la nostra vocazione a saper essere un unico popolo. Nel giudizio finale Gesù ci avverte: “Ero forestiero e mi avete ospitato”, o invece: “Ero forestiero e non mi avete ospitato… ogni volta che non avete accolto uno di questi piccoli miei fratelli stranieri, non avete accolto me” (cf Mt 25,35-46)» (Omelia nella cena del Signore, 23.3.1989).
Siamo rimessi di fronte al tema iniziale: prima ancora di immaginare di andare a fare i missionari, il Signore ci chiede di saper accogliere la sua parola, di saper accogliere la sua profezia in mezzo a noi, anche se arriva per vie a noi sorprendenti.