I DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 3, 25-36


Sarebbe di pessimo gusto se in occasione del matrimonio, l’amico dello sposo rubasse la scena al festeggiato e reclamasse per se un ruolo e un palcoscenico da primo attore. La situazione sarebbe quanto mai imbarazzante: ciò che muove l’amico a un tale eccesso farebbe pensare a qualche interesse nei confronti della sposa… Si aprirebbe uno scenario quanto mai grottesco!

Proprio a questa metafora ricorre Giovanni Battista il Precursore nel rispondere ai suoi discepoli che gli fanno presente che colui che era con te dall’altra parte del Giordano sta battezzando e tutti accorrono a lui. Vedete sono talmente accecati dalla rabbia e dall’invidia che non hanno nemmeno il coraggio di nominare Gesù… vedono quello che loro stessi hanno in cuore: sono pieni di gelosie, invidie, rivalità e vedono quello lì, appunto Gesù, come uno che ruba mestiere e discepoli!

Pare impossibile che non si riesca a fare del bene senza che qualcuno pretenda dei marchi di fabbrica e voglia avere l’esclusiva. Anche all’interno della Chiesa stessa, anche il gruppo di Gesù e non solo quello del Battista, è animato da protagonismi, rivalità…

Nessuna relazione, nessun gruppo, nessun insieme umano è esente dal rischio della concorrenza, della gelosia, dell’invidia, della rivalità. Si inizia con il paradigma dell’amicizia e del legame, e poi si scivola in quello della divisione, della gelosia, del possesso.

Se poi allarghiamo lo sguardo – mentre mi auguro che molti di noi siano tornati da un periodo di vacanza e di riposo – i problemi della nostra società, della nostra umanità sono rimasti lì con tutto il loro carico di incertezza e di paura, anzi non vorrei sembrarvi cinico, ma usando come metafora quello che abbiamo vissuto in queste settimane: crollano i ponti, metafora del crollo della solidarietà, di ciò che ci tiene uniti e crescono i muri, metafora invece di ciò che divide il mio dal tuo e alimenta il conflitto e la violenza.

È interessante che oggi non abbiamo ascoltato una qualche parola di Gesù che ci sia di immediata illuminazione o consolazione, ma quella di un profeta, qual è il Precursore, per dire che la radice di tutti questi mali è nel cuore dell’uomo, quando dimentica il paradigma dell’amicizia, dimentica di essere l’amico dello Sposo e ambisce ad essere altro, vuole avere un posto e una condizione che appunto diventano imbarazzanti, sceglie il paradigma della competizione e della rivalità.

Giovanni dice una cosa strepitosa, operando uno spostamento coraggiosissimo di prospettiva, quando afferma: Non è roba mia! Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è dato dal cielo, perché chi si lascia prendere dalla possessività, dalla gelosia… non riconosce il primato di Dio. Quello che posso dire è di essere l’amico dello sposo. Niente di più, niente di meno.

È importante questo principio, è importante non tanto in astratto, ma nella vita in genere. Pensate alle nostre relazioni, a quelle famigliari, alle relazioni tra genitori e figli, tra insegnanti e alunni… riconoscere che non siamo proprietari e che siamo amici dello sposo, significa accettare che le persone che ci sono affidate, sono anzitutto figli di Dio, prima che nostri… tutto questo ci libera da tante ansie e angosce educative; ci libera da aspettative indebite, da proiezioni mortifere…

Penso anche alle relazioni malate che ci sono nella Chiesa da parte di coloro che chiacchierano e spargono zizzania contro papa Francesco, i cui cuori vengono smascherati nei loro meschini interessi e calcoli, nelle loro invidie e ipocrisie… perché comportandosi così esplicitano di aver fatto della Chiesa una roba loro, una terra di conquista, dimenticando che la Chiesa è di Dio.

Pensiamo anche alla nostra società diventata esperta di muri e di recinti, un’umanità che tende sempre più a circoscrivere, a limitare, a chiudere, a mettere i confini… Giovanni viene a dire: no, non è roba tua, è di Dio. La terra non è tua, è di Dio! Le risorse non sono tue, sono di Dio.

Quante ansietà, quante paure, quante angosce verrebbero meno, se il nostro cuore custodisse questa profonda verità. Da qui nascono risentimenti, violenze, cattiverie… da qui si mette in moto tutta una macchina del male da far paura.

Al contrario, quasi ad arrivare a sembrare ingenuo, Giovanni dice: Ora la mia gioia è piena! Questa è la seconda cosa che ci suggerisce il profeta di Dio: è felice del successo di Gesù, è contento che lo Sposo viva dell’amore della sua Sposa. Sono parole che ricordano quelle di Gesù nell’ultima cena: Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Gv 15,11), ma anche quelle parole riportate negli Atti degli Apostoli come dette da Gesù: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere (20,35).

La gioia trova la sua radice profonda nello stare al nostro posto, nell’essere noi stessi, nel considerare gli altri, le cose, gli eventi della vita come dono di Dio affidati alla nostra responsabilità e intelligenza perché li mettiamo in circolo, li condividiamo.

Pensate forse che perseverare nell’atteggiamento di chi dice: prima i nostri o di chi predica: difendiamo i nostri confini… e tutte queste cose, dia gioia? Qualcuno può seriamente pensare che con questo atteggiamento si possa donare serenità e pace al nostro Paese o all’Europa? Tutt’altro, perché questa logica, questo modo di pensare avrà sempre bisogno di un nemico contro cui combattere, sposterà sempre oltre l’asticella insaziabile della bramosia umana con tutti i rancori e le violenze che comporta.

Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium mette a tema la gioia del Vangelo, non come postura o espressione di facciata, ma come atteggiamento di una Chiesa che esce, che percorre le strade, che sta in mezzo ai problemi e alla gente… perché è nello stare insieme, è nel partecipare, è nell’apertura che possiamo guardare con fiducia il futuro. Non è nella chiusura sul mio, sul tuo…

Il nostro Paese non è questa roba qui: ci sono tanti cittadini, cristiani e non, che fanno della condivisione e dell’apertura un’esperienza possibile e praticabile. Ed è a partire da costoro che possiamo costruire il futuro di un’Italia e di un’Europa che al rancore e alla paura sanno contrapporre le energie positive di chi sperimenta ogni giorno il dialogo, la partecipazione, l’apertura.

Ma per approdare a questo, occorre fare un terzo passo, come ci suggerisce il Precursore pronunciando quell’ultima frase che una volta ascoltata, non si dimentica più: Lui deve crescere, io invece diminuire.

Diminuire significa anzitutto diminuire di fronte a Gesù e dire a lui: tu solo sei grande, tu devi crescere in me… e c’è tutto un cammino spirituale che ciascuno di noi è chiamato a compiere per conformarci a lui, per assimilare il suo pensiero, il suo modo di essere e di vivere.

Ma è anche un diminuire dell’io per crescere nel “noi”. C’è un bene comune che non è semplicemente qualcosa di materiale posseduto insieme, ma è l’insieme delle condizioni di vita che favoriscono l’umanizzazione di tutti: bene comune è la cultura, l’arte, la democrazia… Oggi sembra prevalere la concezione utilitaristica della società e molti pensano che l’organizzazione della città debba garantire ai suoi membri i diritti individuali, quasi che l’interesse generale sia semplicemente la somma degli interessi individuali.

Il bene comune è quando ciascuno comprende che deve accettare di diminuire perché l’altro cresca. L’alternativa è un vivere insieme intrecciato di ostilità, di divisione, di diffidenza e di paura. Non stiamo diventando forse un popolo di egoisti? Anzi non siamo o non stiamo diventando un continente di egoisti?

Era una domanda che C. M. Martini si poneva e poneva alla città nel Discorso per la vigilia di s. Ambrogio già nel 1992. S. Ambrogio diceva che non avrebbe esitato a sacrificare i calici preziosi per riscattare i prigionieri; era disposto a sacrificare un prezioso bene, economico, culturale, affettivo e religioso della propria comunità per compiere un gesto di solidarietà. Saremmo capaci di fare altrettanto? Non stiamo forse diventando invece custodi gelosi e accaniti di quelli che riteniamo beni personali o di gruppo, fino alla negazione della solidarietà?

E interrogandosi sulle cause e sugli ostacoli allo spirito di solidarietà, riconosceva che, tra le altre, pure l’autoritarismo è una grossa forza di desolidarizzazione. Gli studiosi, nel desiderio di comprendere come mai in numerosi paesi d’Europa i regimi totalitari hanno trovato nel nostro secolo un appoggio considerevole, si sono accorti che le persone la cui capacità di libertà personale è meno sviluppata tendono di più verso l’autoritarismo.

E concludeva: Per poter essere solidali, invece, non bisogna essere ansiosi per se stessi; bisogna che l’io personale sia abbastanza forte. L’amore solidale presuppone la conquista della libertà.

Che è il messaggio del Precursore per noi oggi: restiamo liberi di fronte alle cose, alle persone, alla vita. Tutto è dono di Dio. Questo ci permette di vivere nel paradigma dell’amicizia, piuttosto che in quello del sentirci padroni. Questo ci permette di gioire delle piccole cose, del successo degli altri ed essere così solidali: diminuendo i nostri bisogni e le nostre pretese affinché l’altro possa avere di che vivere.

Raccogliamo queste tre parole, questi tre pensieri che dal Precursore attraverso Gesù arrivano fino a noi, come indicatori per vivere nella fede e per coltivare il bene comune, come amici e non come padroni.

(Gv 3,25-36)

(Is 45, 20-24; Mt 20, 1-16)