III DI PASQUA - Gv 1, 29-34
Neanche in un mondo permeato di cultura religiosa come quello ebraico del tempo di Gesù veniva facile indicare qualcuno come agnello. Infatti nel modo di pensare comune e nei partiti ebraici non mancava chi voleva ricorrere alle armi per riguadagnarsi la libertà, altro che agnello.
Immaginiamoci poi in un impero come quello romano che andava imponendosi e lo avrebbe fatto ancora per molti anni, dove la violenza, il dominio e evidentemente anche la corruzione e tutto quello che porta con sé come riflesso sulla vita sociale, sulla moralità pubblica… indicare uno come agnello era quanto meno impopolare.
Tant’è che il Battista precisa subito che uno così non può che essere scelto da Dio, non può che appartenere a lui in qualche modo, non può che essere l’agnello di Dio.
In fondo questa è anche l’esperienza propria dell’evangelista, di Giovanni, il discepolo amato che ha vissuto l’amicizia con Gesù e la reinterpreta negli anni attraverso l’immagine dell’Agnello.
Non a caso pone questa immagine all’inizio del Vangelo come abbiamo ascoltato oggi e anche alla fine, al cap.19, quando contempla il suo amico crocifisso, al quale non vengono spezzate le gambe come avveniva regolarmente ai condannati per accelerarne la morte, perché era già morto, Giovanni interpreta così: questo avvenne perché si adempisse la scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso (19,36).
Si tratta di un rimando alla prescrizione di Esodo (12,46) secondo la quale all’agnello pasquale non si dovevano rompere le ossa, perché l’integrità dello scheletro come delle singole ossa doveva rendere possibile e garantire in qualche modo una continuità di vita.
Siamo di fronte a una fede arcaica nella risurrezione che Giovanni fa sua tant’è che secondo lui Gesù viene crocifisso e muore, proprio nel momento in cui nel tempio di Gerusalemme, venerdì pomeriggio tra le due e le quattro, gli agnelli venivano immolati per la Pasqua.
Non solo, per Giovanni questo Agnello diventa la cifra ermeneutica della storia umana. Infatti nel libro dell’Apocalisse Giovanni descrive la storia del mondo come la lotta tra il grande drago rosso (l’impero romano) che rappresenta il dominio violento e arrogante sulle vicende umane, che a sua volta si serve di una bestia orrenda e mostruosa (la propaganda) e l’altra figura invece paradossale che interroga e sorprende, appunto l’Agnello immolato e sgozzato… che tuttavia sta ritto sul trono! Un agnello che trafitto, regna.
È un’immagine pensata non per destare pietà o commozione, ma per sorprendere: un Agnello siffatto, trafitto e vivente, è l’unico che può aprire il rotolo chiuso con i sette sigilli, è solo lui in grado di decifrare il libro della storia umana che a noi risulta incomprensibile perché scritto dalla violenza e dall’abuso di potere, dalle prepotenze e dalle ruberie… in questo senso sembra una storia condannata a ripetere il passato e ad andare incontro al disastro se non addirittura all’annientamento.
La comunità cristiana che ascolta Giovanni, mentre celebra la domenica come giorno della risurrezione, contempla al centro del mistero della vita e della storia umana il dono di Dio, l’Agnello che è Gesù risorto, colui che ha vinto morendo e rivela e comunica la vita di Dio, cioè il suo Spirito. Ecco la cena dell’agnello!
Col simbolo dell’Agnello viene presentato il modo paradossale con cui Dio regna: non seguendo le logiche del dominio e della sopraffazione, ma attraverso la mansuetudine e la mitezza che l’agnello, tra tutti gli animali, meglio sa rendere percepibile.
Sembra di vedere Giovanni che ascolta il grido di dolore di una chiesa perseguitata, di famiglie che subiscono violenza, una chiesa nella quale egli stesso ha già visto morire martiri i suoi compagni di sequela…. Come leggere e come interpretare la vita se non come sequela dell’Agnello, perché Gesù ha preso su di sé il peccato del mondo e ne è uscito vincitore, ha vinto la morte, i violenti non sono riusciti a soffocare il Vangelo.
Gesù personifica quanto diceva profeta Isaia parlando di un misterioso personaggio che Maltrattato… era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca (53,7).
Siamo dinnanzi a una lezione storica che ci interroga: non si tratta di qualcuno che magicamente toglie il peccato del mondo, perché il peccato continua la sua pervasività, piuttosto di qualcuno che lo porta su di sé, come ha fatto Gesù che è davvero l’agnello attraverso il quale Dio spezza la catena dei sacrifici e inaugura una nuova umanità nella nonviolenza, nella mitezza, nella mansuetudine. È Gesù la via in grado di darci un futuro, per costruire non solo una convivenza umana pacifica, ma anche per riconciliarci con la natura.
Il peccato del mondo è letteralmente il peccato del cosmo! Non siamo di fronte a Gesù che espia i singoli peccati, ma di Gesù, figlio di Dio che portando su di sé il peccato, disarma il male in tutte le sue forme e nella sua radice più profonda.
Come si cambia la modalità di abitare la terra, affinché non sia quella predatoria, propria di chi sfrutta le cose e le persone? Se non assumendo la logica dell’agnello che porta su di sé, assorbe, interiorizza, come Cristo subisce la violenza per trasformarla, vincendo il male con il bene? perché il male fiorisce dove l’amore non basta.
Come agnelli in mezzo ai lupi (Mt 10,16), questo è quanto il Signore chiede ai suoi. Non c’è altra strada da percorrere tra di noi, con la terra e con le cose se non quella segnata dalla mansuetudine di Cristo, dal rispetto che arriva al punto di non ritorno di dare la propria vita per aiutare l’umanità a compiere una volta per tutte una sterzata.
Il peccato del mondo non è solo il peccato degli altri, è di tutti noi, è non credere che la via di Gesù sia la stessa che possiamo percorrere anche noi. Anzi si dà il paradosso che su questa via ci siano altri che magari di Cristo non sanno nulla, eppure nella vita vivono e testimoniano la possibilità di questa alternativa.
(Gv 1,29-34)