V DI QUARESIMA o Domenica di Lazzaro - Gv 11, 1-53
C’è una domanda che sta al centro della pagina di oggi e che segna una svolta nella narrazione di Giovanni, e che sta a segnare un passaggio decisivo anche per noi, e la domanda è quella posta da alcuni dei presenti che vedendo Gesù piangere si chiedono: Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?
È la domanda del miracolo, è la domanda che dice che l’ultimo vero ostacolo per tutti è il dover morire… mentre noi non vorremmo morire, mai. È la domanda religiosa per eccellenza che rimane lì, sospesa.
Gesù non risponde nei termini attesi, perché doveva arrivare in tempo e doveva guarire il suo amico… questo doveva fare, così doveva comportarsi. Questo ci si aspetta da un amico: che arrivi al momento giusto, che ci sia quando hai bisogno, che dica le parole che vuoi sentirti dire. «Ci vorrebbe un amico/ Qui per sempre al mio fianco,/ Ci vorrebbe un amico/Nel dolore e nel rimpianto…» così canta Venditti.
Gesù però ritarda e il suo non è uno sgarbo o un contrattempo, non ha scuse per giustificarsi, non è nemmeno una leggerezza… Anzi i Dodici che gli sono vicini sono ben contenti che il Signore eviti di andare a Betania: è troppo vicina a Gerusalemme e la tensione con le autorità, con i capi… è talmente alta che c’è da temere il peggio. Tommaso infatti quando Gesù decide di andarci comunque esclama: Andiamo anche noi a morire con lui.
Se sei malato da un amico ti aspetti la tempestività di una visita, la presenza pronta, la disponibilità a fare delle cose per te… Gesù invece ritarda.
Se ripensiamo alle figure evangeliche che abbiamo incontrato in queste domeniche di quaresima ci hanno sempre rappresentato dei disagi: dalla sete della donna Samaritana, alla violenza dei giudei, al cieco nato con tutta la sua sofferenza ed emarginazione… ma qui, più ancora che negli altri segni, le emozioni sono intense perché riguardano la morte di un fratello e di un amico.
L’amicizia che Gesù propone con il suo ritardo richiede un supplemento di pensiero.
Non si tratta di indifferenza, perché Giovanni rimarca l’affetto e la commozione di Gesù. La sua è un’amicizia che non è fatta di aspettative scontate ed evidenti. Qui il Signore è tale nell’amicizia perché non evita il dolore ultimo del distacco e della morte, non è evitando il ritardo, il disappunto delle sorelle, non è evitando la morte… che lui ti vuole bene, ma è entrando con te dentro lì, dove noi non vorremmo mai entrare, questa è vera amicizia.
Gesù in questa pagina dà il meglio di sé di quanto ha fatto finora, sia come uomo che come figlio di Dio. Come uomo perché Lazzaro è suo amico e nessun altro evangelista ha osato descrivere così profondamente il legame con lui, la commozione e il pianto per la sua morte.
Ma anche come Dio perché Gesù compie il segno fondamentale della sua missione: tenere la vita, tenere vivo il legame nonostante la morte.
Siamo di fronte alla perfetta fusione tra aderenza alla vita di tutti i giorni, come sta a dire la tragedia dell’amico morto, e la percezione che in questa tragedia non è assente, anzi è presente il mistero di Dio e il mistero della salvezza (C.M. Martini).
Ed è in questa fusione che Gesù ci chiama ad avvicinarci a lui, cioè come a colui che trasforma non il peccato in genere e le situazioni sbagliate in generale, ma le situazioni umane concrete, con la forza della sua amicizia.
Proprio quei disagi in cui si trovano gli uomini e le donne che abbiamo incontrato in queste domeniche, in cui ci troviamo ciascuno di noi, vale a dire: inganno, falsità, violenza, inautenticità… ma anche la morte che sempre ci minaccia, come paura della morte e come possibilità di ribellarci alla morte, sono situazioni di per sé insuperabili da un’amicizia elettiva, da quella della chimica che ci fa stare bene vicino ad alcuni piuttosto che ad altri.
Uno solo ci viene incontro con i tratti dell’amico… perché da soli non andiamo da nessuna parte. “Il vero amico è l’interlocutore privilegiato, l’anima gemella, quello che ci sceglie senza giudicarci, pronto ad accettarci come siamo, non come potremmo essere. E noi dobbiamo fare lo stesso con lui. L’amicizia è innanzitutto un camminare spalla a spalla. Non importa la meta. Più che parlare è tacere. Più che raccontare è ascoltare. Più che discutere è capire. Più che confrontarsi è condividere.
Da giovani non conosciamo la paura di farci male. Siamo arsi dalla sete dell’avventura, lanciati verso il regno incantato dei nostri sogni. Abbiamo bisogno di compagni disposti a spartire il peso del futuro. Lo spirito della rivolta, l’audacia del confronto, il desiderio di mettersi alla prova: tutto questo è un fuoco che ci divora.
Quando si diventa adulti? Arriva sempre il momento in cui dobbiamo curare la relazione ferita: dentro di noi, prima ancora che all’esterno. È l’ora della verità. L’appuntamento decisivo. Se ci riusciamo, avremo detto addio alle fate e ai boschi che ci avevano stregato illudendoci che il mondo potesse essere puro, incontaminato. Al contrario. Siamo fatti di scorie, errori, imperfezioni, scelte sbagliate. Ma se non fosse così, che vita sarebbe?” (Eraldo Affinati).
Per amicizia Gesù fa uscire l’amico dalla tomba… pagando però un prezzo altissimo perché quel giorno si formalizza la sua condanna a morte. Come dirà nel Cenacolo ai suoi: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (15,13).
Per questo Gesù ormai sentendosi stringere il cerchio intorno a sé, decide di fronte all’amico Lazzaro, a Marta e Maria di non tirarsi indietro, pur consapevole che con quello che va facendo di fatto offre su un piatto d’argento l’occasione che i suoi nemici cercavano da tempo per condannarlo, contribuendo così ad alzare la tensione più che in altre pagine evangeliche perché l’abbiamo sentito da Caifa che quel segno a Gesù alla fine venne a costare caro: È più conveniente che uno solo muoia per il popolo e non che vada in rovina la nazione intera! (anche se il concetto di nazione non è esattamente biblico).
C’era un’alternativa? Gesù poteva arrivare in tempo ed evitare di rianimare Lazzaro? Poteva anche evitare di costringere l’amico a vederlo morire in croce e a vivere il resto dei suoi giorni oppresso magari dal senso di colpa fino al punto di aspettare la seconda morte come una liberazione?
Se Gesù non avesse fatto uscire Lazzaro dal sepolcro, si sarebbe risparmiato la vita?
Qui siamo su altro livello di amicizia, che riguarda Lazzaro e ciascuno di noi. Certo che il Signore poteva evitare di rianimare Lazzaro. Ma è la stessa questione di Giuda: era necessario Giuda? Se non lui comunque qualcuno doveva tradirlo? E così, Gesù poteva fare a meno di provocare i sommi sacerdoti e i farisei e il Sinedrio con un gesto forte? Sarebbe vissuto forse ancora qualche anno, avrebbe potuto fare del bene, chissà quante cose ci avrebbe potuto insegnare ancora!
Sono domande legittime, dettate dalla nostra umanità fatta di affetto e di buon senso. Ma Gesù doveva morire, egli stesso lo dice diverse volte, per aprire una breccia in questo ultimo ostacolo, in questo muro invalicabile.
Quando l’amicizia si scontra col muro della morte e della separazione. Gesù muore, non aggira la morte, evitandola, come si domandavano i giudei presenti alla tomba di Lazzaro, ma entrando fino in fondo in essa, come dovrà fare ognuno di noi.
Il ritorno della Pasqua ci ripropone la necessità di misurarci con questo confine, ma non da soli. Abbiamo un amico e anche noi entrando con lui dentro lì, dove noi non vorremmo mai entrare, veniamo liberati.
Perché questa è anche una dimensione bella dell’amicizia di Cristo: non è esclusiva, è un’amicizia fraterna che come Gesù insegna, è capace di fare due cose: togliere la pietra e sciogliere le bende.
Sono i due gesti dell’amicizia vera che possiamo continuare nelle nostre relazioni. Oggi preferiamo esporre le nostre performance più che curare le relazioni con attenzioni che ci impegnano in prima persona.
Come discepoli e amici del Cristo vogliamo essere quelli che tolgono le pietre dei muri che spontaneamente costruiamo intorno alle nostre relazioni, ai nostri paesi, alle nostre appartenenze… e vivere la fede non come esercizio intellettuale, asettico, anaffettivo, ma come amicizia che scende fin dentro le nostre paure, le nostre tombe, le nostre chiusure e ci libera, ci toglie le bende. Ci vuole un amico così, non per dimenticare, ma per continuare a sperare.
(Gv 11, 1-53)