IV DI PASQUA - Gv 10, 11-18


«Di chi mi posso fidare?» Mi domandava una giovane donna venduta dai genitori ai lenoni della prostituzione: come posso fidarmi di te, padre Giuseppe, se i miei genitori, mio padre e mia madre mi hanno venduto? «Di chi mi posso fidare?».

Quando Gesù ci dice parole come quelle di oggi: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge… non fermiamoci all’immagine pastorale: il Signore, amante della vita concreta, per farsi capire dai suoi usava metafore che attingeva da lì. Perché era normale incrociare greggi di pecore o di capre guidate dai rispettivi pastori alla ricerca di pascoli, di ruscelli d’acqua… e così la gente comprendeva che se Gesù si paragonava a un pastore non era per dire che loro fossero delle pecore, dei pecoroni, delle capre! Era per dire che di lui potevano fidarsi, potevano contare sul suo amore.

Perché il pastore conosce le sue pecore, a ognuna di esse dà un nome, ha per loro un affetto unico, le protegge, si cura che stiano bene, che non abbiano a disperdersi… insomma l’amore per le sue pecore è sovrano. Sta al di sopra di tutto, di ogni interesse, di ogni urgenza… fino al punto di mettere a repentaglio la sua stessa vita per difendere coloro che egli ama.

Verrebbe spontanea la domanda: e allora io oggi per chi sarei disposto a mettere in gioco la mia vita? C’è qualcuno che sta al di sopra di qualsiasi cosa, perfino della mia stessa vita e per il quale sarei davvero disposto a tutto?

Ebbene, di noi sappiamo di non poterci fidare troppo, non possiamo fare eccessivo affidamento su noi stessi perché magari per uno slancio emotivo uno un giorno giunge anche dire a una persona: «Ti amo alla follia! Sarei pronto a tutto per te!». Ma poi sappiamo che il nostro è un amore talmente malato che nel giro di poco tempo si può arrivare alla violenza, addirittura a procurare la morte dell’altro, dell’altra soprattutto. Ecco il moltiplicarsi di femminicidi, di vendette, di gelosie patologiche…

Siamo un po’ tutti mercenari, come dice il termine stesso, significa essere attaccato alle pecore nella misura in cui c’è un tornaconto, perché le pecore non gli appartengono. Gli interessa portare a casa lo stipendio, il salario. Cioè c’è sempre un interesse che sta sopra di tutto e quando c’è un rischio da correre, non sarà lui a mettersi in gioco. Perché rischiare di fronte al lupo, al predatore, al pericolo?

Infatti non lo fa, perché, dice chiaramente Gesù, non gli importa delle pecore. Non gli importa. Questo è il dramma. Perché se gli importasse non sarebbe così sciocco da non difendere il gregge. Senza gregge domani non avrà più nemmeno di che lavorare!

Quante volte sentiamo in un giorno questa parola: non m’importa, non mi interessa… perché al centro c’è sempre l’io. Fu don Milani ad adottare il motto «I care», letteralmente «Mi importa, ho a cuore» (in contrapposizione al «Me ne frego» di derivazione fascista). Questa frase scritta su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana, riassumeva le finalità di cura educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per l’altro attenta e rispettosa, capace di far germogliare una presa di coscienza civile e sociale. Quanto è attuale questa parola a distanza di 50 anni dalla morte don Milani!

L’avere attenzione e interesse agli altri richiede l’abilità di non essere centrati su se stessi, significa rendersi conto di che cosa fa, sente e vuole l’altro, insieme a quella di autoregolare e organizzare i propri comportamenti, e riguarda anche i sentimenti, la partecipazione alle emozioni altrui (empatia), la compassione. L’amore, insomma, sempre si impegna con le persone che ama.

Per questo Gesù è un pastore di cui possiamo fidarci e che ci fa credere che anche di Dio possiamo fidarci perché ci vuole così bene da aver consegnato la sua stessa vita e lo ha fatto davvero, arrivando fino in fondo per amore. Di chi ti puoi fidare? Di chi è disposto a dare la vita per te. Gesù ci dice che Dio non è un predicatore mercenario, è un pastore innamorato, senza alcun altro interesse se non quello di farci comprendere di poterci fidare di lui.

Facciamo fatica a trovare una metafora analoga a quella del pastore, ma ciò che conta è che di Cristo possiamo fidarci. Anche se, nell’ipotesi peggiore, tuo padre e tua madre ti abbandonassero, come dice il salmo Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto (27,10), nonostante questa che deve essere l’esperienza più devastante per chiunque, ti puoi fidare di Dio.

Gesù ci dice che il pastore, quello bello, è colui che (lett. depone) la vita per le sue pecore e ripete questo verbo per ben cinque volte nelle poche righe di oggi, perché questa è la cosa decisiva.

In un’altra occasione nell’ultima cena quando si mise a lavare i piedi ai suoi discepoli, come prima cosa, scrive Giovanni, Gesù depose le vesti. Ritorna lo stesso verbo, per dire che così facendo Gesù depone il suo interesse, il suo «io», diremmo noi il suo orgoglio e si mette a servizio per amore perché questa è la vocazione dell’uomo e della donna.

Gesù non dice: dono la mia vita perché…. Se ci fosse un «perché» vorrebbe dire che Gesù dà la sua vita per un’idea, per un principio e quindi avrebbe comunque un suo interesse, un suo tornaconto.

Invece, oltre ad essere disposto a donare la sua vita per noi, a Gesù due cose stanno ancora a cuore: anzitutto il fatto che di cercare una relazione con noi, con ciascuno di noi: Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me e poi il fatto che Gesù guarda oltre il recinto del Tempio: Ho altre pecore che non provengono da questo recinto… e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.

Sono due aspetti costitutivi di quella che chiamiamo «vita spirituale», quella vita che è dentro di noi, che ci abita e che siamo chiamati a custodire. Di che cosa è fatta la vita spirituale? Non di evasione in iperurani improbabili, non di fuga dal mondo, ma si nutre dell’ascolto della voce del pastore. Perché è così: ci si conosce nell’ascolto. Posso dire di conoscere una persona quando ascolto i suoi desideri, i suoi pensieri, quando so cosa abita nel suo cuore e la sua parola mi comunica la sua intimità.

La vita spirituale è ascolto: ascolto del cuore, ascolto dell’altro, ascolto della parola di Gesù. Ed è sempre una relazione personale, mai di massa, perché la pastorale dei grandi eventi partorisce vento, se viene meno l’umile formazione quotidiana, di base fatta di ascolto della Parola.

La seconda cosa è che Gesù parla di altre pecore che non provengono da questo «recinto», usa proprio questo termine. Avrebbe dovuto più propriamente parlare di ovile (epaulis), invece usa un termine che ai suoi ascoltatori faceva capire subito di cosa parlava: si tratta del recinto (aulé) del Tempio di Gerusalemme. Dobbiamo immaginare il Signore in Gerusalemme che parla vicino alla porta collocata a Nord est, chiamata appunto «Porta delle pecore» (Ne 3,4) da dove venivano fatte passare le pecore per essere poi condotte all’atrio del tempio per finire sacrificate.

Gesù dicendo così alza lo sguardo oltre i confini del recinto: il suo amore, la sua cura come pastore va oltre i recinti che le religioni stabiliscono, che i vari templi definiscono!

C’è una vita spirituale anche al di fuori dei nostri ovili, dei nostri recinti. Gesù non è stato un ecclesiastico di professione, altrimenti avrebbe avuto la preoccupazione di difendere il suo recinto. Il centro del suo annuncio non fu la Chiesa, ma il Regno. Si è identificato più col samaritano che non con il sacerdote e il levita della parabola; più con i peccatori che con i farisei, che con quella che era la classe dirigente.

Questo amore del pastore ci insegna non soltanto a credere in lui, ma anche a credere come lui. Ci sono molti che credono in Gesù, ma altra cosa è credere come Gesù. E se impariamo a credere come lui, sapremo anche guardare oltre i recinti e gli steccati per essere capaci di condividere la stessa passione con coloro, e sono tanti, che pur senza saperlo, agiscono come Lui, nella logica di quel regno di giustizia e di pace che il buon pastore ha voluto iniziare e per il quale ha messo in gioco la sua stessa vita.

Di chi ci potremo fidare se non di uno così? E se davvero ci fidiamo di lui, allora impareremo a non fidarci più di altri mercenari, gli uomini della provvidenza cui affidare le nostre vite, le nostre speranze e il nostro futuro, perché il futuro lo costruiamo insieme con tutti coloro che hanno la stessa passione del pastore, quella di chi gli importa degli altri, della vita degli altri.

(At 6,1-7; Rm 10,1-5; Gv 10,11-18)