IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 51-59
(Pro 9,1-6; 1Cor 10, 14-21; Gv 6, 51-59)
Ascoltando le parole di Gesù che si presenta come pane vivo, disceso da cielo… e poi come carne da mangiare e sangue da bere mi sono chiesto cosa potrebbero significare queste parole per la gran parte di persone che passano qui fuori sfiorando la nostra chiesa. Mi chiedo cosa ancora potrebbero dire queste parole del Signore ai nostri contemporanei. Penso che per i più rimandi in senso stretto alla comunione, al concreto cibarsi del pane santificato… forti di un certo residuo di catechismo che ha lasciato un qualche ricordo. E non è poco.
Credo che ai numerosi stranieri poi risuoni strano questo linguaggio, al punto che la domanda dei contemporanei di Gesù, di quei Giudei che sono lì nella sinagoga di Cafarnao, potrebbe essere la domanda che ancora oggi questi nostri contemporanei ci pongono: Come è possibile che Gesù ci dia la sua carne da mangiare?
È un esercizio utile quello di metterci nella condizione di rendere conto a chi non è addentro all’esperienza evangelica del significato di queste espressioni del Signore. È utile perché ci interroga direttamente, personalmente e ci aiuta a non dare per scontato nulla nel cammino di fede, anche se partecipiamo all’eucaristia da anni e domandare con umiltà al Signore di non cadere nella terribile abitudine di compiere gesti e di dire parole religiose sepolte dentro una ritualità ripetitiva e che non dicono più nulla al nostro cuore.
E poi è utile perché ci fa riportare la barra della nostra testimonianza non tanto su di noi, sulle nostre opere, le nostre strutture, ma sul Cristo. Questo mistero del Figlio di Dio mai posseduto, mai conosciuto in maniera definitiva. Quindi ci mettiamo anche noi alla scuola di Giovanni e ascoltando queste parole di Gesù: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ci rendiamo conto che non siamo di fronte a una meteora evangelica. Fin dall’inizio del suo vangelo, nel testo poetico e bellissimo del prologo, Giovanni scriveva: In principio era il Verbo … e poi precisava: Il verbo si è fatto carne.
Non potremmo comprendere la pagina di oggi senza quella prospettiva che Giovanni aveva in mente, per la quale il termine «carne» aveva una risonanza molto diversa dal nostro linguaggio attuale. Giovanni al termine «corpo», preferisce «carne» fin dal prologo per indicare l’uomo nella sua fragilità e debolezza. Per cui dicendo che «il verbo di Dio si è fatto carne», afferma che si è fatto debolezza, fragilità… e lungo tutta la narrazione evangelica spiegherà proprio come la debolezza di Dio ci salva, fino a diventare una cosa sola col segno del pane. Segno umilissimo e straordinario al tempo stesso. Quando Gesù afferma «Io sono il pane vivo», quell’ «Io sono» rimanda al giorno in cui l’Eterno si presentò a Mosè sul roveto ardente, come scrive il libro dell’Esodo: Io sono colui che sono…. La carne del Cristo è la visibilità concreta di Dio, perché Gesù è l’unica persona che ha vissuto nel corpo la realtà di Figlio di Dio e di fratello di tutti.
«Io sono il pane» E cosa fa il pane? Il pane nutre e fa vivere, mantiene la vita. Gesù afferma di essere la vita, ciò che mantiene la vita. Però è anche vero che per coloro che erano nella sinagoga di Cafarnao ad ascoltare Gesù, diversamente dai nostri contemporanei, era immediato il rimando spirituale del nutrimento, perché non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio. Lo ricordava il libro dei Proverbi nella prima lettura, dove la Sapienza è come una regina che ha imbandito la mensa per la sua nuova casa e dice: venite mangiate il mio pane, bevete il mio vino! Quindi Gesù dice che c’è una vita che va nutrita, ma non solo col pane quotidiano, ma di una parola che va mangiata. Gesù è questa parola, appunto il Logos, il Verbo, che si fa pane, carne, fragilità umana che è da mangiare!
Ecco questo è lo scoglio principale espresso dalla domanda dei contemporanei di Gesù: Come fa lui che dice di essere Dio, ma un Dio che assume la fragilità umana, a darci la vita eterna? Come può costui darci la sua carne da mangiare? E Gesù rinforza ancor più il concetto: Se non mangiate la carne e non bevete non avrete in voi la vita. Mangiare la carne, vuol dire mangiare la sua parola, l’umanità di Gesù, la sua vita. Ma come è possibile mangiare?
Nella metafora del pane e della carne il verbo mangiare sostituisce il «credere» tanto caro a Giovanni che ne ha fatto il tema centrale del capitolo precedente. La fede non è qualcosa di vago, un insieme di verità da inculcare nella testa nostra o di qualcuno, la fede è assimilare la carne di Gesù, l’umanità di Gesù fino ad avere un’umanità simile alla sua. Ma appunto come lo mangio, come lo assimilo?
Innanzitutto lo assimilo comprendendo come lui ha vissuto. Mangiando questa Parola senza la quale io non assimilo la vita del Cristo. Perché io ascoltando la parola del Figlio, lasciandomi forgiare giorno dopo giorno, settimana dopo settimana dalla sua vita… la mia intelligenza si assimila alla sua, è lui che mi assimila a sé, mi dà il modo di vedere, di pensare, di agire, di amare del Figlio. Imparo a pensare come lui, ad avere i suoi criteri di valore, il suo sguardo sugli altri. Non solo con l’intelligenza, ma col cuore: amo come ama lui, ho il cuore del Figlio, in comunione col Padre e coi fratelli. E di conseguenza agisco come agisce lui. Mangiare questa carne vuol dire avere il pensiero di Cristo e agire come lui. Paradossalmente diceva Dossetti, facendo sua una convinzione di Agostino: Non è che noi mangiamo l’Eucaristia, ma è l’Eucaristia che ci mangia, ci assimila, ci divinizza. Così che potremmo dire dopo la comunione non che Gesù è nel mio cuore, ma che il mio cuore è in Cristo, la mia vita è assimilata alla sua.
Possiamo dire di aver compreso cosa intende Giovanni quando parla della «carne», possiamo dire di aver colto il senso del «mangiare» che significa appunto metabolizzare la sua Parola. Però Gesù aggiunge una parola che doveva risuonare molto forte per i suoi uditori, ed è l’invito a «bere il suo sangue». Gesù è stato audace nel ricorrere a questa metafora perché ricordiamo che per i semiti il sangue è la fonte della vita. Non si può bere il sangue che appartiene solo a Dio. Anche nella macellazione degli animali si segue appunto un rituale specifico proprio per far sì che il sangue scorra e nessuno ne beva perché la vita è di Dio!
Giovanni, che era sotto la croce, ricorda bene come da quel corpo, da quella carne ormai sfinita, uscì sangue e acqua… quindi ricorda anzitutto la croce, dove appunto carne e sangue si sono divisi e poi per dire che anche noi siamo carne, siamo debolezza, fragilità, ma siamo chiamati a vivere la nostra carne, la nostra fragilità, la nostra debolezza in comunione con Dio. Se facciamo così beviamo il sangue, cioè abbiamo la vita, la vita di Dio che è lo Spirito per cui la nostra carne è animata dallo Spirito di Dio.
Vorrei farvi notare come tutto il vangelo di Giovanni per dire il dono di Gesù, per introdurci nella comunione con lui, comunione che a noi sarebbe altrimenti impossibile, ricorra a parole quotidiane: pane, vita, mangiare, bere, vivere, morire, carne, sangue…. E il dono è quello espresso nel versetto centrale di oggi: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
La comunione col Cristo, con la sua umanità, con la sua identità di Figlio che è significata dall’atto del mangiare e del bere, è descritta da lui con il verbo «rimanere», come di uno che rimane in casa dell’altro e che significa stare insieme senza confusione né fusione. L’eucaristia non è un frullato di due persone, non è antropofagia dove uno mangia l’altro e l’altro scompare, ma è un dimorare, un rimanere reciproco dell’uno nell’altro.
E ciascuno di noi si può chiedere: ma tu con chi rimani? Con chi stai di casa? Poiché colui che tu ami ce l’hai nel cuore, lui diventa principio della tua vita, è la tua vita. E l’altra persona che ti ama ha te nel suo cuore, e tu sei la sua vita.
Questo rimanere è una delle definizioni più belle della comunione, dell’amore: essere di casa presso l’altro, anzi l’altro è casa mia e viceversa, è la comunione. Nella teologia abbiamo insistito molto sulla presenza reale, ma concependola come una dimensione statica. Il rimanere del Signore con noi e di noi con lui è la vera presenza reale, perché la presenza reale non è il fatto che una persona sia presente perché uno può essere qui ed essere con la testa altrove… l’altro ti è presente quando lo ami, se non lo ami non ti è presente, anzi se ti è presente ti scoccia – magari fosse assente, pensi!
Supponiamo che durante una celebrazione all’aperto si sollevi un forte vento per cui le particole volano via e… magari lì nel prato ci sono delle mucche che pascolando, finiscono per mangiare la particola… ebbene, fanno la comunione secondo voi? Sì, potremmo dire che fanno la comunione come tanti cristiani che non sanno quello che fanno!
Rimanere in Cristo, ecco perché di domenica in domenica siamo qui e ogni giorno ci nutriamo della sua sapienza, della parola che vogliamo sempre più metabolizzare. Disponiamoci a rivivere i gesti e le parole di Gesù perché lui vuol rimanere in noi, il suo amore non ci trovi freddi e distratti, ma come casa accogliente, gli chiediamo che ci sia dato di continuare a «rimanere» in lui.