I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 16, 12-15


Mosè è un assassino in fuga che sta cercando di rifarsi una vita… In Egitto aveva rischiato grosso tant’è che dopo aver ucciso un soldato egiziano che aveva maltrattato uno schiavo ebreo e dopo averlo sepolto sotto la sabbia… aveva dovuto fuggire nel deserto.

Ma anche nel deserto Mosè non riesce a sopportare l’ingiustizia e a non reagire di fronte all’ennesimo episodio di prepotenza subito dalle figlie di Ietro che portano le greggi ad abbeverarsi… questa volta non uccide nessuno, ma fa giustizia alle sette figlie di Ietro, e questi per riconoscenza gli concede in sposa Zippora (passerotto).

Mi piace immaginarlo in luna di miele, se così si può dire, sia pure nel deserto, e forse finalmente nelle condizioni di mettersi il cuore in pace, e soprattutto di riconciliarsi col suo passato.

Potevano essere questi i pensieri che gli giravano in testa mentre pascolava il gregge del suocero: aveva avuto una certa cultura, non dimentichiamo che era cresciuto alla corte del faraone d’Egitto e ora aveva una moglie, una certa sicurezza economica, la libertà….

Proviamo solo a pensare come potesse uno così decidere di punto in bianco di tornare a liberare gli altri suoi concittadini dalla schiavitù! Non poteva venire dalla sua testa un’idea così folle: ricercato per omicidio, senza esercito né alleati, e poi aveva messo al mondo un figlio cui doveva pensare… e qui emerge un indizio perché lo chiama Gherson, e la prima sillaba gher in ebraico significa straniero. Come se volesse dire al figlio: vivo come straniero in terra straniera.

Insomma in quelle lunghe giornate a governare le pecore e le capre, il pensiero di Mosè doveva ritornare spesso alle sofferenze della sua gente e alla loro condizione di schiavi… a quel punto deve essere stato facile per Dio soffiare sul fuoco di questa sua sensibilità e preoccupazione.

Mosè è animato da pensieri di giustizia, di rispetto, di umanità… vorrebbe che la sua gente venisse trattata in maniera giusta, che non venisse sfruttata, picchiata…

Dio come fa a fargli capire che non è indifferente alla sofferenza, che non è insensibile al dolore degli schiavi?

Vedendo che Mosè ha un fuoco di passione dentro di sé, non può che parlargli con lo stesso linguaggio, gli fa vedere che anche Dio è un fuoco che brucia di passione per la giustizia e l’amore, rivolgendosi a lui da un roveto che brucia senza consumarsi.

La tradizione rabbinica si è chiesta come mai Dio avesse parlato a Mosè proprio da un roveto e risponde perché il roveto è una pianta dolorosa per le sue spine. Se il popolo è nel dolore anche Dio è nel dolore, come dice il Midrash: «Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo, dalle spine[1]».

Mosè conosce così un nuovo nome di Dio, ed è un’esperienza che gli fa percepire una certa famigliarità con lui, perché il nome dice di un Dio vicino che ascolta, che guarda e che conosce il suo popolo: ’ehjeh ’asher ’ehjeh. Il nome resta misterioso e impronunciabile, perché Dio conserva la sua alterità, tuttavia è un nome che letteralmente significa: Io sono colui che sono e che la Bibbia rabbinica, significativamente, traduce: «Io sono qui». Io sono, è un nome che indica una presenza, ed è una radice verbale dunque indica una presenza attiva[2].

Con questa convinzione e solo con questa certezza Mosè prende e parte, torna in Egitto senza un piano strategico, senza esercito, senza alleanze… perché non è un suo progetto, non è una sua scelta: la sua è la risposta a un amore che gli arde dentro, un amore che nemmeno la giovane moglie e il figlio riescono a trattenere.

Ha sfiorato l’amore di Dio, l’ha percepito in quel roveto ardente e non ne può più fare a meno.

Se guardiamo ora le cose dal punto di vista di Dio, un Dio così ci fa impazzire.

Non puoi che amare un Dio che vede e che sente la miseria nostra e non rimane spettatore e tantomeno giudice. Un Dio che si compromette con uno che ha trovato disponibile e che è, diremmo con le parole delle Beatitudini, assetato di giustizia.

È un Dio che non rimane neutrale, né indifferente, è fuoco che brucia di passione per l’uomo che soffre, per la donna che subisce ingiustizia, per il bambino maltrattato, per l’anziano oltraggiato.

Se, come dice Paolo, grazie allo Spirito siamo figli di un Dio così, siamo anche eredi. Non avevo mai considerato seriamente questa possibilità, ma noi abbiamo un’eredità che ci viene da Gesù e che a sua volta la trasmette dal Padre. Gesù l’aveva detto che ci avrebbe mandato il suo Spirito che avrebbe preso del suo e ce lo avrebbe annunciato.

Che cos’è che lo Spirito prende da Gesù e dona anche a noi?

La stessa passione di Dio che Gesù ha vissuto per noi. Il Signore cerca qualcuno che soffi sul fuoco, così che il roveto continui ad ardere senza mai consumarsi.

Il Signore ha trovato Mosè disponibile e sensibile, ma troverà ancora oggi qualcuno capace di soffiare sul fuoco della giustizia e dell’amore?

Purtroppo oggi sembrano prevalere coloro che soffiano sul fuoco dell’odio. Guardiamo non solo a quello che succede in alcune piazze, ma anche a quanto si muove a livello sotterraneo perché non è banale coordinare gruppi, finanziare un servizio di sicurezza e un’impiantistica audio… c’è una strategia neofascista propria di chi vuole cavalcare il momento difficile per distruggere per poi ergersi a paladini della ricostruzione e della sicurezza. Così accade in tanti Paesi del mondo.

Per questo c’è bisogno che qualcuno raccolga il testimone di Mosè, il mandato di Gesù per continuare a soffiare sul fuoco della giustizia e dell’amore, se non vogliamo essere proprio noi a non far continuare a bruciare questo roveto. Un roveto affatto paragonabile alle nostre passioni che sono talvolta fuochi di paglia: quello del mistero di Dio è un roveto che brucia e non si consuma, e chiede anche a noi di continuare ad alimentarlo.

È come se avessimo ricevuto il fuoco olimpico: abbiamo preso la torcia in mano a Pentecoste e per chi la teniamo viva oggi?

Per gli sfruttati e ora rimasti senza lavoro?

Per le vittime del caporalato?

Per gli oppressi nel sistema mafioso?

Per gli schiavi del gioco, delle droghe e del vizio?

Per le donne ridotte a schiave del sesso?

Per chi viene derubato della terra da coltivare?

Per coloro che rischiano la vita a causa del colore della pelle?

Dio ascolta il loro grido, vede la loro sofferenza e cerca ancora oggi chi, come Mosè, si lasci scaldare il cuore dall’amore per la giustizia.

Dobbiamo schierarci, dobbiamo decidere da che parte stare per poter cambiare le disuguaglianze, le ingiustizie.

E schierarci vuol dire conoscere, studiare, approfondire e metterci insieme con altri discepoli del Cristo per non lasciarci andare alla rassegnazione e al disinteresse.

Ecco se c’è un modo di celebrare la festa della Trinità di Dio è proprio quello di continuare ad alimentare la passione per la giustizia e per l’amore. La Scrittura ci insegna che la Trinità non è un mistero da spiegare per avere le idee più chiare su Dio, ammesso che qualcuno ne sia capace, ma che proprio della Trinità è quell’amore per la giustizia che Dio ha iniziato, il Figlio ha vissuto fino in fondo e nel quale anche noi, grazie allo Spirito, possiamo buttarci.

Dio come anticamente ha trovato Mosè, oggi cerca qualcuno che abbia la stessa passione cui affidare il cammino di liberazione dell’umanità dalla schiavitù della paura, dalla servitù del denaro, dalla condanna alla performance… per cui diciamolo con fermezza che non amano Dio coloro che si servono di Lui per umiliare l’essere umano, non amano Dio coloro che brandiscono la Bibbia come un bastone contro gli sfruttati, i maltrattati, i poveri. Perché Dio è lì con loro, Dio è dalla loro parte, anzi Dio soffia sul fuoco della loro sete di giustizia.

Uno degli errori persistenti nella vita cristiana è di immaginare che se mi sforzo di amare Dio, allora sarò capace anche di amare il prossimo e tutto sarà in ordine. Nient’affatto.

La relazione con Dio può essere giusta solo a condizione che siamo giusti nel nostro rapporto con gli altri.

La nostra relazione con Dio se è vera, allora alimenta come per Mosè, la passione per la giustizia. Mosè non è rimasto a contemplare il roveto, e nel gesto di togliersi i sandali ha capito che non era una sua idea, ma un dono, una grazia che non poteva tenere per sé. E per questo poi si è rimesso i sandali ai piedi ed è partito.

Invochiamo lo Spirito di Gesù perché soffi sui nostri cuori e li accenda di amore per la giustizia.

(Es 3,1-15; Rom 8,14-17; Gv 16,12-15)

[1] Esodo Rabbah 2,5

[2] Secondo la radice araba hwj che significa ”essere ardente” il nome potrebbe essere tradotto anche come: Io sono colui che ama con passione (G. V. Rad).