IX DOPO PENTECOSTE - Mc 2, 1-12


(1 Sam 12, 1-13; 2Cor 4,5-14; Mc 2,1-12)

Il tema della parola di Dio di questa domenica è ben espresso dal ritornello del salmo: Ridonami Signore la gioia del perdono. Se uno chiede perdono è perché ha consapevolezza del proprio peccato, del proprio errore. Questa è chiaramente la condizione di Davide, del grande re d’Israele che nella prima lettura di oggi ci viene presentato subito dopo il grave peccato di adulterio per il quale aveva anche mandato a morte il marito di quella donna. Mentre ci risulta più difficile capire la condizione del paralitico che viene presentato a Gesù perché lo guarisca: c’è un sottinteso in tutta la pagina secondo il quale la gente crede che sia paralitico perché chissà quali e quanti peccati avrà commesso!

Se è paralitico è perché in qualche modo ha peccato. Questo crede la gente e Gesù afferma che in realtà è il peccato che paralizza l’uomo, di una paralisi morale e spirituale. E infatti quell’uomo paralitico e senza nome è l’immagine della condizione di ciascuno di noi: uomini e donne, giovani e anziani, per quanto possiamo essere capaci dei più grandi slanci, della dedizione più vera agli ideali del Vangelo, dell’amore, della giustizia… tuttavia ci troviamo ogni giorno a fare tristemente i conti con il peccato inteso qui come quella condizione di incapacità a camminare dietro al Cristo: perché il peccato, che sia l’egoismo, che sia l’avidità o l’indifferenza – e per rimanere all’esperienza di Davide – che sia la sensualità… il peccato che segna la nostra vita dice tutta l’incapacità umana di salvarci da soli.

Ne è un esempio appunto la figura di Davide, il grande re d’Israele. Di lui ricordiamo il famoso colpo di fionda con cui stese il filisteo Golia, un energumeno di tre metri che teneva in scacco l’esercito di Saul, vinto da un pastorello imberbe! Davide è stato anche un condottiero dal carisma davvero straordinario, è con lui che intorno all’anno mille a.C. si realizza la promessa fatta ad Abramo e poi portata avanti da Mosè, da Giosuè… infatti è Davide che organizza le dodici tribù in un popolo strutturato e compatto, in un regno con dei confini, con un esercito come si deve… È Davide che trasferisce la capitale da Ebron (dove regnò sette anni, 2Sam 5,5) a Gerusalemme dove regnò trentatré anni facendo sua capitale l’antica città dei Gebusei, costruita sul colle Sion già dal 2000 a.C..

Ebbene di questo grande re, che darà il nome anche all’attesa messianica: il messia sarà discendente di Davide, la liturgia di oggi ci fa ricordare uno dei momenti più negativi, uno di quei momenti che volentieri altri avrebbero cancellato dalla propria biografia. Invece il profeta Natan non esita a mettere il re difronte al suo peccato: per andare dietro alle sue voglie, ai suoi capricci è giunto al punto di tradire Uria uno dei suoi migliori generali e di mandarlo a morte sicura per sedurne la moglie Betsabea.

Perché dare tanto spazio a quella che potremmo considerare oggi una debolezza? Perché denunciare pubblicamente una figura istituzionale come il re che pure aveva dalla sua il popolo? Perché non chiudere un occhio con uno che pure aveva fatto tanto per il Signore?

È Davide stesso a rispondere: Ho peccato contro il Signore e con le parole del salmo 51: Pietà di me o Dio secondo la tua misericordia… sarà ancora più esplicito. Davide riconosce appunto la condizione umana, la condizione per la quale anche uno come lui non può presumere di salvarsi da solo, deve riconoscere che solo la misericordia di Dio lo può salvare e Gesù deciderà di inserirsi nella sua discendenza, di farsi chiamare figlio di Davide per dire la sua solidarietà e la sua missione per liberarci, per noi e con noi.

Noi siamo quel paralitico incapaci di camminare dietro a Gesù. Il peccato sembra regalarci la libertà, ma in realtà nessuno ci regala nulla, il peccato ci rende dipendenti, succubi e schiavi tristi di noi stessi. Noi siamo quel paralitico, sdraiati sulle nostre pigrizie, sulle nostre superficialità… Come trovare oggi quattro amici con una fede tale da portarci da qualcuno che ci salvi?

Li abbiamo già questi quattro amici: lasciamoci portare da Marco, da Matteo, da Luca e da Giovanni. Sono loro i quattro amici che ci prendono così come siamo e ci portano al Signore. Affidiamoci alla loro testimonianza, lasciamo che sia la loro esperienza di Cristo a guidarci a lui, giorno dopo giorno, per scoprire che lui perdona il peccato, nel nome del Padre ascolta la fiduciosa preghiera dei figli umani e peccatori.

E questa è la prima cosa che possiamo fare. Non c’è peccato che ci porti così lontano dal Signore che lui non possa raggiungerci. Se ci lasciamo guidare dai Vangeli scopriamo che non c’è peccato che possa impedire al Signore di salvarci. Pubblicani, prostitute, violenti, opportunisti… nei vangeli troviamo tutto l’ampio genere umano di peccatori, ma nessuno è irresistibile per il Signore.

Ma allora perché Gesù gli chiede di portarsi appresso la sua barella? Il paralitico l’avrebbe lasciata lì volentieri, tanto ormai non gli sarebbe più servita. Perché la barella è quella cosa che sta lì a ricordarti che puoi sempre correre il rischio di averne bisogno e così Gesù ci fa’ quel regalo che non vorremmo: prendi la tua barella e cammina!

Ce la portiamo appresso quella barella, la terremo come cimelio di una condizione passata, di un peccato lontano. La terremo come sacramento della sua misericordia: per non dimenticare che senza di lui non ci è dato di essere guariti. Quella barella è il ricordo del nostro peccato e il sacramento del perdono.

Ma in quell’uomo paralitico non vediamo solo la nostra condizione personale, è tutta l’umanità ad essere rappresentata da lui. L’umanità sembra paralizzata dalla violenza, incapace di uscire dalle logiche della ritorsione, della vendetta. I rumori di guerra che vengono da diverse parti del mondo, la morte di tanti innocenti, il dramma dei cristiani in Iraq, le migliaia di famiglie costrette a lasciare tutto perché perseguitate… dicono il peccato di un’umanità incapace di darsi un futuro di dialogo, di rispetto, di giustizia.

Sembra che gli organismi internazionali siano paralizzati, la politica estera europea è inesistente, il parlamento italiano è impegnato a oltranza a riformare se stesso, le urgenze di ciascuno di noi sono altre, dalla crisi economica e occupazionale all’organizzazione delle “meritate” ferie… mentre decine di migliaia di persone abbandonano le loro case, a centinaia sono uccisi, i più deboli – anziani, malati, bambini – muoiono per le insostenibili fatiche di un viaggio senza speranza.

Scrive Enzo Bianchi, priore di Bose: Certo, lo scoraggiamento, il senso di impotenza, l’istinto di rimozione per vincere l’angoscia, l’impossibilità ad assumere sulle nostre spalle tutte le miserie del mondo ci frenano, ma cosa deve ancora succedere perché le nostre coscienze siano scosse e chi ne ha il potere faccia qualcosa per fermare il massacro?

La storia ci chiederà conto di questa catastrofe umanitaria che non riusciamo o non vogliamo impedire. Perché in Iraq come in Siria non è a rischio solo la sopravvivenza di una comunità cristiana presente nella regione fin dai primissimi secoli: è a rischio l’umanità intesa come capacità di sentirsi ed essere responsabili del proprio simile.

È a rischio il patrimonio etico della cultura, della convivenza, del dialogo, del confronto per fronteggiare insieme il duro mestiere del vivere.

La nostra preghiera oggi interceda presso il Signore perché nella sua misericordia ci renda operatori di giustizia e di pace e rialzi l’umanità dalla sua paralisi.