I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Lc 24, 44-49a
Sembra quasi paradossale, ma nella mia esperienza di vita di ogni giorno avverto sempre più l’esigenza nella gente che incontro, con cui vivo e condivido la vita, il bisogno di Vangelo. È come se il mondo avesse bisogno del Vangelo come l’aria per respirare e vivere.
È una situazione paradossale perché invece tutto quello che riguarda le religioni, le chiese intese come organizzazioni e strutture, sembra interessare sempre meno… sembra diventare via via sempre più irrilevante.
Se questo è il tempo in cui c’è bisogno di Vangelo, in che senso intendere allora il mandato missionario, come dice la giornata missionaria che la chiesa ambrosia celebra oggi? Come intendere l’annuncio missionario oggi? Che cosa annunciamo?
Non è una domanda retorica, anzi proviamo a pensare cosa significhi vivere il Vangelo in questo momento storico, in questa condizione di pandemia che viviamo ormai da tanti mesi?
Cerco di rispondere seguendo uno schema semplice, fatto di tre passi. È un modo di articolare il pensiero che incontriamo nell’enciclica Fratelli tutti, ma che papa Francesco aveva già adottato nella esortazione apostolica Evengelii gaudium (2013), vale a dire: lettura della situazione e della realtà; comprensione della situazione alla luce della parola di Dio; infine la decisione e la scelta di agire, di fare delle cose.
Primo punto dunque accogliere la situazione, la realtà così com’è.
Osserviamo cosa fa il Signore. Il vangelo di Luca che abbiamo ascoltato è solo la parte conclusiva del cap. 24, del racconto dei discepoli di Emmaus in cui ci racconta anzitutto l’atteggiamento di Gesù mentre camminava con loro sulla strada lasciandosi Gerusalemme alle spalle dopo che avevano assistito al dramma della fine del loro Maestro.
Gesù per un lungo tratto li ha ascoltati, li ha presi per mano così come stavano e per quello che avevano in cuore. Ha accolto il loro stato d’animo, la loro tristezza e delusione, i loro dubbi, le loro perplessità.
Ecco il primo passo: accogliere la realtà, misurarsi con quello che c’è e non con quello che vorremmo trovare o vorremmo che ci fosse. E magari accorgerci che anche nelle realtà più improbabili il Signore sta già agendo, è già all’opera magari in modi e linguaggi a noi strani e difficili da riconoscere.
La realtà in questo tempo di pandemia è che viviamo una profonda crisi, chiamiamo così questi momenti, una crisi che mette in discussione tutto un passato e ci costringe anche a fare i conti con errori e sbagli in cui perseveriamo.
La radice verbale del termine crisi è il verbo krino – che significa ‘separare’ per cui in ogni situazione c’è qualcosa che devo tenere e qualcosa che devo lasciare. Invece ogni giorno assistiamo appunto a un quotidiano proliferare di messaggi pubblicitari con cui il mercato non perde occasione per farci sapere che una volta finita l’epidemia saremo – non si sa bene come e perché – gli abitanti di un mondo migliore!
È la retorica propria del nostro tempo, il tempo degli automatismi, dove tutto deve succedere senza che nessuno si faccia del male e dove le ferite vanno ricucite in quattro e quattr’otto e poi… via come prima.
Questa è la realtà da leggere alla luce della Parola di Dio, ed è il secondo passo, perché anche nella Scrittura si narra di momenti di crisi e sappiamo bene come la crisi più grande di tutte sia stata quella della morte di Gesù. Non a caso gli evangelisti la descrivono come un momento in cui, pur succedendo a mezzogiorno, tutto si è fatto scuro, come a mezzanotte, uno scombussolamento globale!
D’altronde per i discepoli la morte in croce di Gesù è stata un vero e proprio trauma che ha aperto una profonda crisi tra di loro e nel gruppo più ampio degli amici di Cristo… anche loro avrebbero voluto tornare a fare quello che facevano prima, ma non c’è stato niente da fare, la crisi c’era ed è stata tosta perché Gesù è morto.
Cosa fa allora il Signore con i discepoli di Emmaus che erano appunto abbattuti e stavano tornando sui loro passi? Aprì loro la mente per comprendere le Scritture… (v.45).
Ecco il secondo passo: tutto ciò che è scritto nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi non è lettera morta, è la chiave di lettura di ciò che viviamo, di ciò che sperimentiamo.
Così i due discepoli di Emmaus vengono accompagnati da Gesù a rileggere la delusione che avevano in cuore e a fare i conti con le loro aspettative, che erano quelle proprie di chi voleva un Dio vincitore, un Dio che sbaragliasse i nemici e riducesse a nulla gli avversari. Gesù li ha guidati a riconoscere che la Scrittura insegnava come Dio invece stesse dall’altra parte e avesse da sempre un occhio particolare per ciò che è debole, fragile e che in questo significato si può comprendere anche il mistero della croce.
Ma attenzione, rileggere la nostra situazione alla luce del mistero della croce, simbolo e segno di ogni fallimento e di ogni abiezione, di ogni ingiustizia e violenza, non è per una sorta di rassegnazione che ci fa ripiegare su noi stessi, per una facile consolazione. Ogni crisi, ogni cambiamento rivela sia ciò che noi siamo, sia di che pasta è fatto Dio.
Pensiamo quando il tempio di Gerusalemme, dove Gesù pregava, fu distrutto… era un luogo decisivo non solo per la religione e il culto, ma anche per l’identità d’Israele, lì erano custodite le grandi tradizioni… ebbene gli ebrei non avendo più un luogo dove pregare, hanno cominciato a riunirsi intorno alla tavola di famiglia a pregare e cantare le lodi al Signore, senza più offrire sacrifici.
Quando non poterono più seguire la tradizione, sia gli ebrei che i cristiani presero in mano la Parola e rilessero appunto i Salmi, i Profeti per comprendere meglio cosa andava succedendo e per agire di conseguenza. Così aggrappati alla Parola, hanno riletto Mosè, i Profeti e i Salmi… si sono nutriti dello Spirito che ha aperto i loro cuori al rinnovamento, alla rigenerazione. Appunto come a Pasqua.
Risale infatti a dopo Pasqua l’esperienza di cui ci ha parlato la prima lettura, quando Pietro che aveva vissuto il momento sconvolgente della morte di Gesù, arrivò a dire: Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Pietro che è deciso ormai a portare la sua predicazione e le sue convinzioni… si accorge che quando arriva lui, Dio è già lì. Era già arrivato prima di lui!
Non ci dice il Vangelo che la crisi che stiamo attraversando deve essere l’occasione per ripensare con coraggio il nostro stile di vita, le nostre economie, i nostri rapporti col lavoro, con l’ambiente? Non ci dice il vangelo che da questa crisi può rinascere una nuova umanità più solidale e meno chiusa e indifferente?
Con questa fiducia, con il cuore aperto dalla Parola di Dio, dobbiamo compiere il terzo passo, proprio come i discepoli di Emmaus che dopo che Gesù ha riscaldato i loro cuori con la Parola, decidono di tornare indietro, riprendono la strada per Gerusalemme. Decidono di vivere il Vangelo e per questo lo annunciano.
Non lo annunciano come si promuove un prodotto commerciale, non si tratta di fare i “testimonial”, come corre uso oggi, il testimonial spende la sua voce, la sua persona per quel breve lasso di tempo di un annuncio pubblicitario, di una trasmissione, di un video… ma la sua vita potrebbe essere tutt’altro da quello che dice.
L’amico di Cristo è uno che, apostolo, discepolo, uomo o donna che sia, anche se dovessero chiudere tutte le chiese, anche se dovessero distruggere tutte le Bibbie, è uno che è radicato nel Vangelo perché lo vive.
Vivere il Vangelo è il vero antidoto all’individualismo, alla paura, all’entropia del nostro tempo.
Quando lotti contro le ingiustizie e reagisci all’indifferenza, annunci il Vangelo, che tu lo sappia o meno.
Quando vivi la compassione per i poveri e gli ultimi, testimoni il Vangelo, che tu lo sappia o meno.
Quando condividi i tuoi beni e pensi al bene comune, annunci il Vangelo, che tu lo sappia o meno.
Perché davvero Dio non fa preferenza di persone ma ama chiunque lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga.
(At 10,34-48; Lc 24, 44-49)