II DI AVVENTO - Lc 3, 1-18


Quando ascoltiamo da Luca al v.2 che la parola di Dio venne su Giovanni figlio di Zaccaria (e di Elisabetta), nel deserto, cosa intendiamo? La parola di Dio scese su Giovanni. Cos’è la parola di Dio? Dio parla? Cosa intendiamo quando ricorriamo a queste espressioni che sono ormai scontate nel linguaggio religioso?

Vi suggerisco una lettura assai intrigante per questo tempo di avvento: un agile libro di Gabriella Caramore dal titolo “La parola Dio”[1]. L’autrice dedica pagine suggestive che ci fanno bene all’anima, alla ricerca inesausta di cosa significhi il termine “Dio” e ad un certo punto afferma come non solo sia stato necessario trovargli un nome, ma anche far sì che quel nome avesse una voce, dargli la Parola.

Ma non è una prerogativa esclusiva dell’umano quella di parlare, comunicare, emettere suoni attraverso i quali ci si comprende, ci si esprime?

Certo oggi siamo portati a studiare il linguaggio degli animali, dei vegetali e le impressionanti evoluzioni dell’intelligenza artificiale… ma nulla riesce a scalfire l’insostituibile complessità del linguaggio umano.

È risaputo ciò che può l’uomo con la parola: chiama per nome, stabilisce relazioni, costruisce pensieri… ma può anche ingannare, mentire, distruggere e annientare…

È anche vero che in molte tradizioni religiose le divinità parlano, interloquiscono con gli umani in forme diverse, anche se nessuno mai può aver udito materialmente la voce di Dio.

La Scrittura ci ha abituati a pensare che anche Dio ricorre al linguaggio, alla parola: fin dalla Genesi Dio parla e le cose avvengono, vengono create. Il Dio biblico viene narrato soprattutto attraverso la sua Parola. È Parola.

E non poteva essere altrimenti: come poteva entrare in relazione con l’uomo se non attraverso la Parola, un Dio che incessantemente insegna, giudica, guida, promette, consola?

Tant’è che la professione di fede di Israele non suona come per noi con un orgoglioso “Credo”, ma con un più umile: “Ascolta…”. Ascolta Israele, Shema’ Israel! (Dt 6,4-7). Dall’ascolto nasce la fede, la fiducia, la coscienza di dover fare i conti con una voce che interpella, chiama, inquieta, obbliga a pensare e a vagliare i gesti, le parole.

In questo senso la Parola di Dio plasma l’umano, lo fa germogliare, lo trasforma, lo rigenera, non solo perché – come normalmente si crede –  è una parola normativa esterna alla vita dell’uomo ma perché, come appunto dice Luca, la Parola di Dio venne su Giovanni, non rimane nelle profondità dei cieli o negli abissi del mare, bensì arriva al cuore dell’uomo e lo nutre. Il Signore risponde al tentatore: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, in Mt 4,4.

La Parola che esce dalla bocca di Dio viene accolta, ascoltata dall’uomo e lo forma, lo plasma attraverso una lunga, faticosa, corale elaborazione di pensieri, di idee, di sapienza, di suggestioni che si propongono alla coscienza di ciascuno in forma dialogica, interrogante, dubitativa.

Il Concilio nella sua massima autorevolezza ha dedicato un documento  come la Dei Verbum per aiutarci a entrare in questo misterioso dialogo, per affermare che la Bibbia non “è” Parola di Dio, né ovviamente è stata scritta da Dio, bensì “contiene” la Parola di Dio, il quale ha ispirato gli uomini – e forse anche le donne (!) – che in un lungo processo hanno compiuto un’opera redazionale complessa, non nel senso ovviamente materialistico per cui potremmo immaginare che Dio abbia sussurrato qualcosa così da essere udito da orecchi umani.

È un processo, una meditazione profonda e dialettica tra la vita e la spiritualità che ci abita, per questo la lettura della Bibbia non è mai compiuta una volta per tutte, è un laboratorio spirituale nel quale lo studio della Parola di Dio diventa un atto di libertà.

Immaginiamo Giovanni Battista nel deserto e nel silenzio, che ascolta e riascolta il capitolo 40 di Isaia e si interroga: Cosa sono questi sentieri che si raddrizzano, cosa vuol dire che i burroni si riempiono e che i monti verranno abbassati?

Il Battista aveva davanti una società tutt’altro che pacifica e tranquilla come registriamo dalle reazioni delle folle, dei pubblicani e dei soldati. Le loro risposte ci fanno intuire le tensioni sociali tra i diversi gruppi, tra i ricchi e il popolo, tra i soldati e la povera gente… Quanto dicono in risposta al Battista mette in evidenza le ingiustizie economiche del tempo, le angherie dei militari e le loro violenze sui disperati.

È curioso che tocchi a Giovanni rammendare la Parola di Dio con la realtà e farla uscire dal Tempio e dalle sinagoghe. Ma questo è il compito del profeta, è la sua missione.

Ed è quanto dobbiamo fare anche noi: non tenere il Vangelo di Gesù chiuso qui dentro le quattro mura di una chiesa, ma avere il coraggio e la parresia di viverlo nelle contraddizioni del nostro tempo, nelle sfide che la cultura e la società ci pongono. Non ci può bastare la ricerca della rettitudine personale, della fedeltà individuale che ciascuno di noi coltiva. Dobbiamo fecondare con i semi del Vangelo le nostre valli, i nostri sentieri, le nostre città.

Anche noi abbiamo sentieri da raddrizzare. Proviamo a chiederci: cosa c’è di storto intorno a noi? Cosa vediamo che non è secondo giustizia, secondo verità? Magari è qualcosa che abbiamo dentro di noi, delle storture che ci danno fastidio perché appartengono alla nostra storia, alle nostre abitudini sbagliate. Ma guardiamo anche alle storture che registriamo intorno a noi, alle ingiustizie che viviamo nel nostro condominio, nelle nostre case, nella nostra società.

Nella prima lettura il profeta Baruc, segretario e amico di Geremia, un centinaio d’anni prima di Cristo, per due volte rivolge questo invito: Gerusalemme guarda a oriente e vedi la gioia che ti viene da Dio.

Guardare ad oriente di Gerusalemme significava vedere le carovane dei deportati che tornavano dall’esilio a Babilonia…

A me oggi ha fatto pensare a quell’oriente dove papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar hanno sottoscritto un documento sulla Fratellanza umana, ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019, nel quale si impegnano seriamente a diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace, e smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di terrorismo e di oppressione.

Ecco una stortura da raddrizzare non potrebbe essere proprio quella di chi continua a vedere nelle altre religioni, nelle altre fedi dei rivali, dei concorrenti se non dei nemici? Quando invece possono essere doni di Dio per noi. Nel testo ad un certo punto si dice anche: L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo.

Nel viaggio in Thailandia papa Francesco ha ribadito l’importanza del Documento sulla Fratellanza umana per dire che oggi è tempo di immaginare con coraggio la logica dell’incontro e del dialogo vicendevole come via, della collaborazione come condotta e della conoscenza reciproca come criterio.

Tutto questo non è affatto scontato e tantomeno condiviso, anzi. Pochi giorni fa non si è fatta attendere la reazione di un centinaio di cosiddetti intellettuali cattolici che hanno accusato papa Francesco di atti sacrileghi proprio in riferimento a questo documento giungendo a chiedere a tutti i vescovi della Chiesa cattolica di rivolgere una correzione fraterna a Papa Francesco per questi scandali e di ammonire i loro greggi che… se seguiranno il suo esempio rischiano la dannazione eterna!

E chiedendo al Papa di pentirsi pubblicamente e senza ambiguità dei peccati commessi contro Dio e contro la vera religione.

Ci rendiamo conto che mentre qualcuno cerca di raddrizzare i sentieri, altri si industriano a crearne di più storti ancora? Il nostro è un lavoro che non può avere mai fine. La fatica di tessere la Parola di Dio con le sfide del nostro tempo è ben diversa da chi riduce semplicemente il Vangelo a un codice etico da applicare senza cura dell’umano.

Osserviamo cosa accade nella narrazione evangelica: è la gente che chiede a Giovanni: che cosa dobbiamo fare? Non è Giovanni che impone una legge o dei comportamenti e se lo fa è in risposta alla consapevolezza di chi ha compreso la necessità di cambiare vita, di abbassare l’orgoglio e la superbia, di colmare le valli delle ingiustizie e dello sfruttamento.

Ci sono molte altre cose che esigono da noi un impegno più coraggioso, penso alle valli di iniquità e di ingiustizia economica; di pregiudizi e di ignoranza che ancora attendono di essere colmate.

Così come penso alle montagne di superbia e di orgoglio che ancora devono essere abbassate. Alle montagne di violenza e di odio che riguardano le donne: domani celebriamo la giornata contro la violenza sulle donne, un fenomeno che sembra non riusciamo a scalfire e per il quale come cristiani siamo in ritardo e non senza alcune responsabilità.

Ecco è questo il lavoro che dobbiamo fare: non si tratta di ripetere stancamente la nostra fede in astratto, ma di incarnare la Parola di Dio qui e oggi, di portare frutto. Un lavoro che presuppone come ci insegna il Battista, un tempo di silenzio, di ascolto e di preghiera. Un tempo di deserto.

(Bar 4,36-5.9; Lc 3,1-18)

[1] G. Caramore, La parola Dio, Einaudi 2019.