DOMENICA CHE PRECEDE IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE (29 agosto) - Mc 12, 13-17
(1Mc 1,10-.41-42;2,29-38; Ef 6, 10-18; Mc 12, 13-17)
La parola di Dio è un dono per noi in questo momento e in questo tempo di violenza, di guerre di religione, di crudeltà disumane compiute addirittura in nome di Dio. Chiediamo al Signore di avere il discernimento della storia, la capacità di comprendere ciò che accade e di non accontentarci di qualche impressione o giudizio letti qua e là, di qualche reazione emotiva senza quella lotta interiore di cui ci parla Paolo nella seconda lettura. Credo proprio che le parole dell’Apostolo siano la prospettiva da cui partire, anche perché sono le parole di uno che pure era stato un fondamentalista violento e persecutore. Quindi sono ancor più credibili.
Paolo nell’incontro con Cristo ha compiuto un cambiamento notevole, al punto che lo sentiamo dire che la battaglia necessaria, la lotta di cui non si può fare a meno, non è quella con la spada, ma è tutta spirituale. Noi più che di battaglia preferiamo parlare di discernimento, ma la sostanza è la stessa. Non è la lotta e la guerra contro gli altri, contro altri credenti, altre religioni o filosofie o eserciti, a cambiare il corso delle cose, ma la battaglia contro lo spirito del male che abita dentro di noi… una battaglia, tra l’altro già vinta da Cristo, che ha per spada la parola di Dio, la corazza come giustizia e la fede come scudo…
La prima lettura sembrerebbe andare in questa direzione, con il racconto della resistenza passiva di mille ebrei che pur di non profanare il sabato non oppongono resistenza e vengono brutalmente massacrati, uomini donne e bambini, dall’esercito di Antioco Epifane[1]. Questo signore volendo imporre il paganesimo in Israele non esitò a dare il via a un disegno perverso con la paganizzazione del tempio di Gerusalemme ridotto a un Panteon e la persecuzione fino alla morte per coloro che non si adeguavano al nuovo corso. Di fronte a tale violenza, la resistenza dei Maccabei che prende il nome dal martirio dei 7 fratelli Maccabei (= martellatori) e della loro madre, fu sì una resistenza per la libera confessione della fede, ma ben presto la lotta religiosa divenne lotta politica e lotta armata.
Non tocca a noi giudicare quella resistenza armata, ma come non leggere l’attualità di quella situazione? Ancora oggi possiamo e dobbiamo chiederci: ma la fede si difende e si promuove con la spada? Davvero le violenze del terrorismo islamico dei nostri giorni per difendere o propugnare la fede possono essere una guerra santa?
Così come dovremmo chiederci se anche le crociate all’insegna del «Dio lo vuole» (Deus vult) di Pietro l’Eremita o di Bernardo di Chiaravalle, possono essere considerate un evento cristiano? Che pensare di Giovanna d’Arco, della battaglia di Lepanto, della guerra dei «cristeros» messicani (1926-1929), dei combattenti degli indios nelle riduzioni del Paraguay, dei cattolici irlandesi contro gli anglicani inglesi, dei maroniti libanesi contro i musulmani… ci possono essere davvero «guerre del Signore»? questa è la domanda. Non vogliamo giudicare le circostanze storiche con i criteri di oggi, ma la domanda è se ci possono essere davvero «guerre del Signore»?
C’è stato un tempo in cui la spada non è stata giudicata affatto in contraddizione con la fede e la croce. Il nemico del popolo di Dio era identificato come un nemico di Dio e la vittoria su di lui una benedizione che divenne anche addirittura celebrazione liturgica.
Quando nel Vangelo ascoltiamo l’invito di Gesù: quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio a Dio, ci rendiamo conto che il Signore ci fa compiere un passo avanti. Diciamolo subito: Gesù non dà una ricetta, una soluzione, ma pone un principio di discernimento, ci chiede di avere una capacità di intelligenza critica, come quella che lui ha esercitato di fronte ai suoi interlocutori che vanno da lui, inviati dai cosiddetti «poteri forti». I suoi interlocutori sono farisei e erodiani, due partiti che normalmente si contrastavano, hanno ora in Gesù un nemico comune contro il quale coalizzarsi. Prima lo blandiscono: sappiamo che sei veritiero, sappiamo che non hai soggezione di nessuno, non guardi in faccia a nessuno… e poi arriva la domanda tranello: ma secondo te è lecito o no pagare il tributo a Cesare?
Non è una domanda retorica o ingenua perché se dice di pagare va bene agli erodiani, perché erano i partigiani di Erode, di un re che governava per conto dei romani, quindi una sorta di re fantoccio messo lì dall’occupante straniero. Costoro sono pro Roma. Se dice di non pagare andrà bene invece ai farisei perché, nonostante il nome ormai li accomuni in una sorta di giudizio collettivo di disprezzo, erano zelanti, rigorosi, godevano di grande popolarità, anche perché non vedevano l’ora che i romani se ne andassero e lasciassero libero Israele, pur rifiutando la lotta armata portata avanti dal partito degli zeloti.
Insieme dunque vanno a provocare Gesù, sapendo che qualunque risposta darà, in qualche modo si compromette. Perché se dice che il tributo è da pagare, allora che Messia sei? Il Messia deve liberare il popolo dal potere e se dici che bisogna pagare il tributo ti metti contro le aspettative della gente e sei finito, non ti crede più nessuno. È il desiderio dei farisei. Dall’altra parte, se Gesù dice di non pagare il tributo, allora fa’ il gioco degli erodiani che l’avrebbero rinchiuso immediatamente in galera, denunciandolo come sovversivo.
La domanda è pensata bene, secondo loro, c’è un’esca bellissima, dopo tanti complimenti… Gesù però li sorprende e ci sorprende anzitutto perché non ha la moneta del censo[2], Gesù non ce l’ha e chiede che gli venga mostrata e così facendo li mette di fronte a una questione ben più radicale. Perché è chiaro che introducendo il tema dell’immagine, Gesù li rimanda alla creazione, quando Dio dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza». E ora se sulla moneta c’è la testa dell’imperatore con l’iscrizione Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus a lui si restituisce la moneta, così se l’uomo e la donna sono immagine di Dio, l’uomo e la donna sono da restituire a Dio.
Perché se per gli ebrei Cesare non è un dio, e questo è fuor di dubbio anche per noi, però è anche vero, dice Gesù, che Dio non è un cesare! Il Signore si rifiuta di rendere culto a un Cesare che si erge come un dio, ma si rifiuta anche di rendere culto a un Dio che sia immagine di Cesare. Dio non ha bisogno del braccio secolare per esercitare il suo regno. Il Dio che si rivela nell’uomo Gesù mettendosi al servizio dei più piccoli, dei più deboli, rivelandosi in un crocifisso è l’esatto contrario dell’immagine di un qualsiasi Cesare.
È questo il nucleo del sempre attuale esercizio di discernimento che tutti noi siamo chiamati a compiere. Se Dio è fonte della vita non può identificarsi con chi usa il suo nome per costruire un potere al prezzo di altre vite.
E noi oggi, per essere concreti, dobbiamo stare attenti a non semplificare, a non diventare banali nel ridurre ad esempio l’Islam alle bande di criminali che compiono queste crudeltà, siano esse il Boko Haram (lett. l’educazione occidentale è peccato) in Nigeria, Al Shabaab in Somalia o l’Isis in Iraq e Siria.
Non possiamo che ascoltare con fiducia le voci delle autorità musulmane che nelle diverse parti del mondo hanno fermamente condannato l’uso strumentale della religione e con loro invocare il Dio della pace e del rispetto della vita.
Impariamo ad ascoltare le testimonianze che vengono dall’Iraq di musulmani che aiutano cristiani, sfidando le rappresaglie dallo Stato islamico, e di cristiani che accolgono sciiti, turcomanni o shabak in fuga dalle violenze. Accade anche questo nello sconvolgente scenario iracheno segnato da atrocità e persecuzioni. Oltre alla guerra «nel nord dell’Iraq c’è anche una grande solidarietà interreligiosa», afferma monsignor Yousif Thomas Mirkis, arcivescovo di Kerkūk dei Caldei.
Facciamo tesoro della parola di Gesù: restituiamo a Cesare quello che è di Cesare nel senso che, come diceva papa Francesco, queste violenze vanno fermate. E al contempo se amiamo un Dio che non si pone come un cesare, come cristiani, proprio perché restituiamo a Dio quello che è di Dio, siamo amici di tutti. «I non cristiani possono essere nemici di un cristiano – scriveva il beato Charles de Foucauld -, ma un cristiano è sempre tenero amico di ogni essere umano»
[1] Ovvero «colui che si manifesta con splendore», si faceva chiamare così perché voleva essere la rappresentazione terrena di Zeus (175 -164 a.C.).
[2] Si chiamava così questa moneta il cui scopo era proprio quello di segnare la sottomissione al dominatore romano e vi erano tenuti tutti gli abitanti della regione tra i 14 e i 65 anni.