IV DI AVVENTO - Mt 21, 1-9


Is 40,1-11; Mt 21, 1-9)

Forse qualcuno si stupirà per il fatto che essendo oggi l’8 dicembre, non celebriamo la festa dell’Immacolata, ma la liturgia ambrosiana riconoscendo la precedenza del giorno del Signore morto e risorto, rimanda a lunedì la celebrazione della festa di Maria. Tuttavia ci piace pensare che anche la Madre abbia seguito Gesù in quel giorno alle porte di Gerusalemme, anche lei sia stata presente per accompagnare un ingresso diverso da tutti quelli che Gesù aveva fatto nella città santa, un ingresso che anche noi con lei accompagniamo con tante domande: Cosa significa questa cosa? Parrebbe essere un ingresso trionfale, ma non c’è nulla di trionfante, Gesù non sfugge alle tensioni e alla persecuzione, anzi decide di affrontare la città con tutto ciò che questo significherà per lui e per noi.

Non solo, la celebrazione di oggi segue il giorno in cui abbiamo festeggiato s. Ambrogio che ha tanto amato la sua città e la diocesi, così che insieme con lui anche noi ci domandiamo cosa dice il Signore a noi che amiamo questa nostra città, che viviamo in questo quartiere e in questo tempo? Cosa dice alla sua Chiesa?

Anzitutto Gerusalemme, cifra e simbolo della città e di ogni città, si presentava a Gesù come una città fragile, attraversata da numerose tensioni e problemi dovuti alla eterogeneità dei popoli che salivano alla città santa per i più svariati motivi religiosi, economici, politici, affettivi… Una città fragile anche a causa dell’ occupazione romana con tutto quello che questo poteva significare.

Gerusalemme era fragile allora, com’è fragile ancora oggi. Come lo sono tutte le città e così Milano è vissuta da molti di noi come città fragile, attraversata dalla paura e dall’insicurezza, dall’incertezza per il futuro

Il Signore entra in una città attraversata dalla paura e sono tante le nostre paure. Ogni età della vita ha le sue proprie paure ed è proprio per questo che viviamo una città fragile (dal verbo latino frangere: spezzare), i cui legami si lacerano facilmente, come un tessuto delicato, le cui relazioni, la sua stessa vivibilità è fragile.

Tra l’altro ci sono delle ricerche che ci dicono una cosa che fa molto pensare: chi è che ha più paura? Chi esce di meno di casa. Chi passa più ore davanti alla televisione. È la città che non viene frequentata, che non viene fruita, che non viene vissuta, quella che fa paura maggiormente. Sono le persone che più si chiudono in casa – qui gioca certo anche l’età -, ma anche una serie di altri fattori più psicosociali, le persone che fanno più fatica a uscire, che si fanno spaventare, sono quelle che stanno più in casa, che hanno i rapporti con il mondo mediati dalla televisione e che quindi, tendono a sviluppare un maggiore senso di insicurezza e di paura.

E io mi sono detto: certo il Signore entra nella città fragile e abitata dalla paura, e come ci sta allora Gesù, come vince ciò che normalmente farebbe fuggire?

Gesù ama Gerusalemme e decide di salirvi perché a Gerusalemme, dicono i rabbini, «si sale sempre». La strada è in salita non solo perché è 800 mt sopra il livello del mare… a Gerusalemme si sale sempre perché la convivenza civile è sempre in salita, la concordia tra la gente percorre una strada ripida, la stessa pace è una salita.

La serenità, la pace, la tranquillità, ma la stessa convivenza sono sempre in salita, non sono mai dati acquisiti una volta per sempre. E Gesù entra nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nelle dinamiche complesse della città non esibendo strumenti di forza o di potere per dare sicurezza, non viene come politico autoritario a distribuire illusioni di futuro, non è esibendo la forza che offre la pace, la fiducia e la speranza.

Come il grande Isaia raccolse la profezia di Dio per parlare al cuore di Gerusalemme, così Gesù parla a noi, parla al cuore di Milano per donarci oggi una parola di consolazione, di affetto, di cura, proprio come diceva la prima lettura: Consolate, consolate il mio popolo! E come chiesa di Ambrogio dobbiamo tornare lì, a parlare al cuore della gente, a parlare al cuore di chi fa fatica, al cuore angosciato di chi è preoccupato per il futuro. Piuttosto che parlare ai tavoli dei politici, ai summit dei potenti … dobbiamo tornare a parlare al cuore di ogni donna e di ogni uomo. Ma parlare al cuore per dire che cosa?

Certamente per annunciare il Vangelo, come ci ricorda papa Francesco con l’esortazione Evangelii gaudium, il vangelo della consolazione, della gioia. Ma la consolazione capace di arrivare al cuore non corrisponde a un facile imbonimento, non è una pacca sulla spalla. Riascoltiamo ciò che dice il profeta: Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre. Partendo dalla giusta considerazione dei problemi, perché il fiore appassisce – e questa sapienza non dobbiamo dimenticarla -, parliamo al cuore della città perché impari ad ascoltare la Parola che non passa. Una Parola che ci parla anche con le immagini: osserviamo la prima immagine, è l’icona stupenda di come Dio entra nella città, nella convivenza umana, nei suoi commerci, nei suoi uffici, nelle sue piazze e nei suoi palazzi: a dorso di un’asina.

Questa povera bestia che fin dalle elementari ci hanno costretto a guardare con superiorità e magari un poco di disprezzo, al punto da temere di venire identificati in essa, è invece ciò di cui il Signore si serve per entrare in città, ed è ciò di cui il Signore ha bisogno ancora oggi.

Allora noi che vogliamo portare il Vangelo e che vogliamo davvero essere utili al Signore perché la gente lo ascolti, lo incontri, lo ami … dobbiamo portare il Signore con umiltà e con la consapevolezza che «il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanda indietro subito»! è già stupefacente pensare che il Signore si lasci portare da noi, ma poi dobbiamo lasciare che sia lui il protagonista, che sia lui a parlare al cuore… perché la sua Parola rimane, il suo amore, la sua misericordia è quello che conta. Il resto, le nostre opere, le nostre attività, le nostre organizzazioni, tutto passa.

Anzi, c’è un particolare che rinforza questo pensiero, perché Gesù non solo entra a dorso di un’asina, ma c’è anche un puledro. Quel puledro siamo noi e aspetta di crescere perché il vangelo non può rimanere fuori dalla città, deve trovare un asino che lo porti dentro, fin nel cuore della città!

E poi c’è una seconda immagine che ci viene suggerita da Isaia: Dio è come un pastore che ha cura del suo gregge e sono tre le cose che fa il pastore.

La prima è che il Signore col suo braccio raduna tutti, e queste braccia allargate ad abbracciare tutta l’umanità sono le braccia di Gesù distese sulla croce. Vita donata da buon pastore e non da mercenario che invece si preoccupa del proprio guadagno.

E poi porta gli agnellini sul petto: ecco i piccoli, i malati, i poveri, coloro che non contano nulla nella città, Dio li porta sul cuore! Sapersi amati da Dio anche quando ci sentiamo piccoli, inutili, incapaci è consolazione e pace.

Infine, una terza cosa fa Dio, è come un pastore che conduce dolcemente le pecore madri, un pastore che accompagna con dolcezza le pecore madri. Penso a quelle donne che portano notte e giorno la fatica della quotidianità, del lavoro, della casa, dei figli da crescere e che spesso sono oggetto di violenza.

Dio un poco ci provoca: sembra trascurare gli uomini, i maschi, perché conosce bene le fatiche della donna, di colei che genera la vita e la accudisce… Dio entra nella città così, prendendosi cura e portando sul cuore il povero, il piccolo, il fragile per trattarlo con la dolcezza di una madre.

Abitiamo la città con questi sentimenti e pensieri, entriamo nelle relazioni complesse della convivenza civile con l’atteggiamento di Gesù, atteggiamento capace di umiltà, di consolazione e di cura. Sia che andiamo in metro, sia che partecipiamo alla vita culturale, economica o politica della città, sia che ne usufruiamo in qualche modo, possiamo vincere la paura e rendere più sicura la città con la fiducia di chi guarda l’altro negli occhi, di chi ascolta le storie di vita, di chi costruisce relazioni così come si costruiscono ponti e occasioni di incontro e di confronto, anziché muri e distanze.

Nel percorrere le vie del nostro quartiere per visitare le famiglie in occasione della tradizionale benedizione del Natale, mi sono trovato un po’ ad essere come quell’asinello, a volte trova accoglienza, a volte indifferenza, a volte addirittura paura… Sperimento spesso la condizione di chi sta in mezzo tra una porta e l’altra, sul pianerottolo tra due o tre campanelli da suonare e vedo questa come l’immagine di come debba amare e abitare la città il discepolo di Cristo, perché di questo forse abbiamo più bisogno.

Infatti talvolta capita che le porte si aprano in contemporanea e casualmente si crei un’occasione di incontro e allora le persone si guardano in faccia, perché, come spesso sento dire: «Non li conosco, non ci vediamo mai», oppure «rientrano sempre tardi»… Rendiamoci con umiltà e senza arroganza vicini agli altri, con l’atteggiamento di chi si prende cura soprattutto di chi non conta, dei piccoli… Gesù viene così, perché anche noi impariamo a trattarci così gli uni gli altri con mitezza e tenerezza.