NATALE DEL SIGNORE - messa nel giorno - Lc 2, 1-14


L’annuncio del Natale di Gesù torna con la sua caparbia volontà di proporci e di indicarci un’altra strada per stare al mondo.

Quello che avviene a ciascuno di noi e ai nostri cuccioli che ancora nascono è di succhiare con il latte della mamma la bramosia di eccellere, di comandare… di essere soggiogati a una continua sfida a salire.

A questa stregua Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di potenza, per farci paura, per farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No! È venuto come un bambino qualunque, anzi si è messo tra i più fragili, i più deboli. Perché?

Luca lo racconta inserendo nella narrazione un’esperienza particolare, quella dei pastori che la gloria del Signore avvolse di luce! Pensate quel Dio che Mosè sperimentò come Uno che non poteva essere visto (“Nessuno può vedere me e vivere”, Es 33,20), ora viene conosciuto da anonimi pastori che vengono avvolti dalla sua luce.

Ecco è un primo significato del Natale. «Tutti vogliono crescere nel mondo, ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere “dio”. Solo Dio vuole essere bambino» (L. Boff).

L’uomo vuole salire, comandare, prendere. Dio invece vuole scendere, servire, dare. È il nuovo ordinamento delle cose e del cuore.  Dio prende carne, diventa uomo, anzitutto per scardinare quella barriera che ci portiamo in testa e nel cuore e che ci fa pensare Dio come l’Onnipotente, come uno che ha potere di vita e di morte su di noi, uno da temere, da tenersi buono, con cui barattare qualche favore.

E invece lui si fa impotente perché nessuno abbia più vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno abbia paura di lui, perché tutti possano proprio sentirlo vicino, andargli vicino e non ci sia così più nessuna distanza fra noi e Lui.

Dio non deve fare paura, mai. Se fa paura non è Dio colui che bussa alla tua vita, perché lui si disarma in un neonato.

«C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di noi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da Lui pensato, da Lui amato … da Lui amato» (cf Paolo VI, 25 dic. 1971).

Di fatto noi non riusciamo ad accettare questa cosa fino in fondo, perché sappiamo dove conduce: conduce a Pasqua. Questo amore che si abbassa, si umilia… conduce al dono di sé e allora la pietà popolare ha preferito, o addirittura costruito, una cornice puerile che ha compensato e nascosto l’irriducibile forza eversiva del Vangelo sotto un certo sentimentalismo oppure dentro il frullatore dei consumi, al quale facciamo fatica a sopravvivere.

È anche per questo che i nostri auguri sono molto pagani, stiamo tornando ad essere pagani, nel senso più bieco del termine. Ancora ingenuamente pensiamo che ci sia una qualche forza magica che possa cambiare le cose, così come invece c’è chi è oppresso dal pensiero che qualcuno gli possa fare il malocchio… dove l’atteggiamento pagano è il medesimo.

In realtà, Dio ha scelto di nascere piccolo perché ha voluto essere amato, non temuto. Ecco come la logica del Natale è il capovolgimento della logica mondana, della logica del potere, della logica del comando, della logica fariseistica e della logica deterministica.

Noi celebriamo ogni anno la nascita di Gesù, celebriamo questo mistero di un Dio che si fa uomo e quindi umano, di un Dio che capovolge l’ordine del logicamente scontato, l’ordine del dovuto e del matematico. In questo capovolgimento sta tutta la ricchezza della logica divina che sconvolge la limitatezza della nostra logica umana. Scrive Romano Guardini: «Quale capovolgimento di tutti i valori familiari all’uomo – non solo umani, ma anche divini! Veramente questo Dio capovolge tutto ciò che l’uomo pretende di edificare da sé».

«Nel Natale noi siamo chiamati a dire «sì», con la nostra fede, non al Dominatore dell’universo e neppure alle più nobili delle idee, ma proprio a questo Dio, che è l’umile-amante» (Papa Francesco).

C’è anche un secondo significato del Natale vero per noi e lo trovo sempre nelle parole dell’angelo rivolte ai pastori, quando afferma che questa è una grande gioia che sarà di tutto il popolo.

I nostri non sono tempi di gioia, eppure l’angelo, la voce di Dio che scende nel cuore dei pastori annuncia una gioia che sarà di tutto il popolo: una gioia possibile a tutti, ma proprio tutti, anche per la persona più ferita e piena di difetti, non solo per i più bravi o i più seri.

Perché Gesù è venuto a portare non tanto il perdono, ma molto di più; è venuto a portare se stesso, luce nel buio, fiamma nel freddo, amore dentro il disamore.

È venuto a portare il cromosoma divino nel respiro di ogni uomo e di ogni donna. La vita stessa di Dio in me. E sulla terra pace agli uomini: ci può essere pace, anzi ci sarà di sicuro. I violenti la distruggono, ma la pace tornerà, come una primavera che non si lascia sgomentare dagli inverni della storia.

Nei giorni scorsi, nella chiesa luterana della memoria, adiacente al luogo della strage di Berlino, cristiani, musulmani e persone non religiose si sono ritrovate insieme in silenzio per esprimere un convinto “no” alla follia della violenza cieca che uccide e semina terrore: senza tentazioni di vendetta, ma saldi nei valori della convivenza civile che segnano la vittoria sull’odio irrazionale, sulla disumanità che oggi sembra imporsi. Non bastano ragioni economiche per fare l’Europa: ci sono ragioni etiche e spirituali, di umanesimo vissuto che ne costituiscono l’ossatura e possono renderla un corpo unito, vivo, ospitante.

Ma, ancora un ultimo pensiero, ed è il segno cui l’angelo rimanda i pastori: troverete un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia. Ripenso alle parole di don Primo Mazzolari quando diceva: Il presepio è fatto di uomini e di bestie. C’è un bambino, c’è Maria, c’è Giuseppe: una famiglia di povera gente che porta i destini del mondo. La tradizione vuole che ci siano accanto un asino e un bue. Provate a togliere quel Bambino, spegnete quella luce: che cosa vi rimane? Avete creato la fraternità? Avete creato la pace? No, avete un presepio dove c’è soltanto un asino e un bue, vale a dire una umanità che non ha più una speranza, ma è una stalla (Natale 1956).

Eppure, per quanto si cerchi di togliere quel Bambino dal presepe, per quanto ci si impegni ad addomesticare il Vangelo del Dio che diventa uomo, per quanto l’umanità possa ridursi a una stalla, l’annuncio del Natale permane nella sua verità e consistenza.

Certo, diceva nei giorni scorsi il vescovo maronita di Damasco, Samir Nassar, il rumore infernale della guerra soffoca il canto di Gloria degli angeli, il bambino Gesù ha molti compagni in Siria. Milioni di bambini non hanno più casa e vivono senza riparo, in tende o in alloggi di fortuna, proprio come la stalla di Betlemme. Gesù non è solo nella sua miseria. I bambini siriani, abbandonati, orfani e psicologicamente devastati dalle scene di violenza che hanno provato e visto, vorrebbero tanto essere al posto di Gesù, perché il Cristo almeno ha sempre i suoi genitori.

Molti bambini siriani invidiano Gesù perché Lui ha trovato almeno un posto umile per nascere e un riparo, mentre alcuni di loro sono nati sotto le bombe o durante un esodo che li ha portati lontano dalla loro patria.

Ma proprio per questo dobbiamo tornare a contemplare quel segno di un Bambino, senza farlo diventare patetico. Torniamo a quel segno. Ogni volta che le nostre armi, le nostre bombe, i nostri interessi economici schiacciano, umiliano, uccidono un bambino, è come se volessimo cancellare da noi stessi il futuro della nostra umanità.

Ma è anche vero che Dio continua a fare nascere bambini, ogni bambino che nasce ci viene a dire che c’è un mondo che sta nascendo. Si tratta di dargli una mano, si sa i parti sono sempre dolorosi.

Rinnoviamo la nostra fede nel Dio fatto uomo, non già perché siamo presi da una forma di ottimismo nell’umanità, perché credere nell’umanità non significa credere che tutti siano buoni, ma vuol dire credere che è possibile vivere insieme nella giustizia e nella pace.